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Benchmark e fondi comuni, 3 cose da sapere

Per molti risparmiatori, sottoscrittori di fondi comuni, l’importante è che il valore del proprio investimento cresca nel tempo e soprattutto non si riduca. Non necessariamente però questo ci dice qualcosa circa la bravura di un gestore: in un periodo in cui il mercato di riferimento del fondo è in crescita, è facile che anche l’andamento del fondo sia positivo; viceversa in una fase negativa per i mercati, è possibile che anche il rendimento del fondo lo sia.

di Alessandro Leozappa - 28 Luglio 2015 - 5'

Per molti risparmiatori, sottoscrittori di fondi comuni, l’importante è che il valore del proprio investimento cresca nel tempo e soprattutto non si riduca. Non necessariamente però questo ci dice qualcosa circa la bravura di un gestore: in un periodo in cui il mercato di riferimento del fondo è in crescita, è facile che anche l’andamento del fondo sia positivo; viceversa in una fase negativa per i mercati, è possibile che anche il rendimento del fondo lo sia.

Facciamo un passo indietro per capire perché il rendimento assoluto del fondo non è l’unico parametro rilevante. Scegliendo un fondo comune a gestione attiva un risparmiatore paga alla società di gestione (e a chi gli ha venduto il fondo) una commissione di gestione annua affidando a questa il mandato di cercare di fare meglio del mercato su un orizzonte temporale rilevante. Il benchmark è proprio quel parametro che ci permette di valutare l’andamento di un fondo rispetto a quello del suo mercato di riferimento. Un fondo comune che, ad esempio, investe nel mercato azionario americano dovrà avere come benchmark un indice azionario americano, come l’S&P500. Confrontando il risultato di lungo periodo di un fondo rispetto al suo benchmark è quindi possibile valutare la bontà delle scelte di gestione prese e capire se la commissione di gestione pagata nel tempo è stata ben spesa.

Le implicazioni della presenza o meno di un benchmark e della sua composizione sono estremamente rilevanti poi per la politica di gestione del fondo e per le commissioni prelevate. È bene quindi chiarire qualche punto per evitare brutte sorprese.

Benchmark e commissioni di performance

Come approfondito in altre occasioni, le commissioni di performance sono quelle commissioni caricate dal fondo quando questo consegue dei buoni risultati. Banca d’Italia prevede che questi “buoni risultati” siano individuati in relazione all’andamento di un indice di riferimento coerente con la politica di investimento (il benchmark appunto). Insomma, la società di gestione guadagna commissioni di performance solo se il fondo ha un andamento migliore del benchmark. Da qui la tentazione di semplificarsi la vita, adottando, ad esempio, come benchmark di un fondo azionario non semplicemente l’indice del mercato di riferimento ma un indice in cui tale mercato pesa il 95% mentre il restante 5% è rappresentato da un indice monetario. In questo modo si rende più facile superare il benchmark anche senza particolari scelte di gestione ma solo investendo negli stessi titoli che compongono l’indice in misura superiore al 95% del patrimonio del fondo.

Benchmark e politica di gestione

Un’altra tentazione che potrebbe cogliere i gestori è invece quella di replicare un portafoglio molto simile al benchmark del fondo. In questo modo, non prendendosi la responsabilità di scelte molto diverse dall’indice (e probabilmente dalla media degli altri fondi) si elimina il rischio di avere una performance negativa peggiore degli altri fondi. È facile infatti giustificare a un cliente l’andamento negativo del fondo in un contesto di crollo del mercato. Più difficile è evidentemente giustificare un risultato molto peggiore dell’indice e degli altri fondi comuni comparabili. Nel fare però questa non-scelta, ossia di quasi replicare la composizione del benchmark, si preclude evidentemente ai clienti la possibilità di avere un rendimento migliore rispetto agli altri fondi, nonché si viene meno al mandato di compiere le scelte di gestione ritenute migliori. Se il servizio che il cliente ottiene è quello di una gestione quasi-passiva (a benchmark) tanto vale sottoscrivere un vero fondo passivo che replichi il mercato a un costo molto più basso.

Benchmark e fondi flessibili

Battere il benchmark, come si suol dire, è difficile. È difficile innanzitutto perché il benchmark non ha commissioni: non è insomma un prodotto acquistabile ma solo l’indice dei prezzi (e di dividendi e cedole) di un certo mercato. Sul valore del fondo invece pesa almeno una commissione di gestione. Quindi, perché in un anno un fondo faccia meglio del suo benchmark, deve realizzare una sovra-performance pari almeno alla commissione di gestione. Non tutti i fondi però devono confrontarsi con un benchmark. I fondi flessibili, con una politica di investimento quindi non riconducibile ad una determinata classe di titoli o ad un determinato mercato geografico o ad una tipologia di obbligazioni particolare, sono difficilmente confrontabili con un benchmark prestabilito. Negli ultimi anni abbiamo visto però un fiorire di fondi flessibili, non sempre definibili tali in un’accezione più ortodossa del concetto. Il dubbio è che la classificazione disinvolta di un fondo come flessibili sia gradita ai gestori che così sfuggono dal confronto con un benchmark e riescono a guadagnare commissioni di performance più facilmente.

Insomma, il confronto con il benchmark su un orizzonte temporale rilevante, è un buon parametro (ma non sufficiente) per valutare la bontà di un fondo. Se il fondo considerato ha negli anni un andamento sempre sotto benchmark o pari, è bene chiedersi quale sia il valore aggiunto che offre. Acquistando un fondo è poi importante chiedersi se il benchmark è coerente con la politica di gestione o se sia un traguardo troppo facile da superare, il che potrebbe portare a commissioni di performance non sempre meritate. Se invece il fondo è privo di benchmark è bene valutare se sia un fondo realmente flessibile o se lo sia solo di nome.

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