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Il dominio del dollaro è ancora sostenibile?

Gli Stati Uniti restano gli egemoni del sistema economico e finanziario internazionale nonostante il peso dell’economia statunitense a livello globale stia diminuendo sempre più. In un recente speciale pubblicato dal settimanale ‘The Economist’ si spiega perché questa combinazione di fattore rischia di essere sempre più insostenibile.

di Una finestra sul mondo - 10 Novembre 2015 - 8'

Gli Stati Uniti restano gli egemoni del sistema economico e finanziario internazionale nonostante il peso dell’economia statunitense a livello globale stia diminuendo sempre più. In un recente speciale pubblicato dal settimanale ‘The Economist’ si spiega perché questa combinazione di fattori rischia di essere sempre più insostenibile.

Se gli egemoni servissero a qualcosa, la loro utilità risiederebbe nel conferire stabilità al sistema da loro dominato. Per settant’anni il dollaro ha rappresentato il superpotere del sistema finanziario e monetario internazionale. Nonostante le voci su un’ascesa dello yuan, la supremazia del biglietto verde resta sostanzialmente senza rivali. Che sia usato come mezzo di pagamento, come riserva di valore o come asset di rifugio, niente può toccarlo. Tuttavia il dominio del dollaro ha fondamenta fragili e il sistema sottostante risulta pertanto instabile. Per di più, le valute di riserva alternative presentano mancanze. Per questo una transizione verso un ordine monetario più sicuro appare estremamente difficile.

Per decenni, l’economia americana ha legittimato l’affermazione della supremazia del dollaro. Tuttavia una faglia si è aperta tra il potere economico a stelle e strisce e la sua potenza finanziaria. Attualmente gli Stati Uniti rappresentano il 23% del PIL mondiale e il 12% degli scambi commerciali internazionali. E ancora, il 60% della produzione mondiale, e una percentuale simile della popolazione mondiale, risiede di fatto all’interno della zona dollaro o in aree geografiche le cui valute sono in qualche modo legate al biglietto verde. La quota di investimento di compagnie statunitensi all’interno di imprese internazionali è scesa dal 39% del 1999 al 24% odierno. Ciononostante Wall Street continua dettare il ritmo dei mercati finanziari a livello globale, oggi più che mai. I fund manager statunitensi gestiscono attualmente il 55% degli asset in gestione a livello mondiale, rispetto al 44% di dieci anni fa.

L’allargarsi del gap tra il potere economico e finanziario statunitense crea problemi per gli altri paesi, e non solo per quelli legati al biglietto verde. Questo si spiega con il fatto che il costo del dominio del dollaro inizia a superare i benefici ad esso collegati.

In primo luogo, le economie sono soggette a rotazioni spesso selvagge. Nei mesi recenti la prospettiva di un seppur lieve rialzo dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve ha creato un deflusso di capitali dai mercati emergenti, abbattendo le valute locali e i prezzi delle azioni. Le decisioni della Banca Centrale a stelle e strisce influenzano i debiti esteri e i depositi in dollari che ammontano a circa 9 trilioni di dollari. Dato che alcune economie collegano le proprie valute al dollaro, le banche centrali di questi paesi devono necessariamente reagire alle azioni della FED. Investitori stranieri posseggono tra il 20% e il 50% del debito emesso in valuta locale di paesi come Indonesia, Malaysia, Messico, Sud Africa e Turchia: saranno quindi questi i più propensi ad abbandonare i mercati emergenti nel momento in cui i tassi americani risaliranno.

Un tempo gli effetti negativi dei deflussi di capitali sarebbero stati mitigati da un aumento della domanda – inclusa quella per le importazioni – che avrebbe spinto la FED a rialzare i tassi come prima risposta. Tuttavia, nell’ultimo decennio la quota delle importazioni di merci a livello globale degli USA è diminuita dal 16% al 13%. Gli Stati Uniti rappresentano il principale mercato di esportazione solamente per 32 paesi, in calo dai 44 del 1994, nello stesso periodo il dato relativo alla Cina è passato da 2 a 44 paesi. E’ chiaro quindi che un sistema in cui la FED amministra e gli altri paesi si agitano è instabile.

Il secondo problema è la mancanza di un meccanismo di protezione per il sistema dollaro all’esterno degli USA nel caso che questo sia colpito da una crisi. Nel 2008-2009, in qualità di prestatore di ultima istanza la FED è scesa in campo a malincuore erogando 1 trilione di dollari per soccorrere le banche centrali e commerciali straniere. La somma che potrebbe essere coinvolta in una futura crisi rischia di essere ancora maggiore. Il mondo legato al dollaro al di fuori dei confini degli Stati Uniti è praticamente raddoppiato rispetto al 2007. Nel 2020, questo potrebbe essere grande quanto l’intero sistema bancario statunitense. Dal 2008-2009 la diffidenza verso i prestiti di emergenza è cresciuta all’interno del Congresso USA. Nel caso di una nuova crisi quindi i piani della FED di emettere ingenti linee di swap potrebbero incontrare forti resistenze a livello politico interno.

Per quanto tempo questi paesi saranno disposti a legare i propri sistemi finanziari alla disfunzionale e insofferente politica statunitense? Tale questione è sottolineata dalla terza preoccupazione: gli Stati Uniti utilizzano sempre più l’influenza finanziaria come strumento politico. I politici e i pubblici ministeri usano il sistema di pagamento in dollari per affermare il controllo non solo su banchieri e loschi funzionari calcistici, ma anche verso regimi nemici come Russia e Iran.

I cittadini statunitensi potrebbero chiedersi in che modo tutto questo impatta sulla propria vita. Essi non hanno forzato alcun paese a legare la propria valuta al dollaro o incoraggiato alcuna impresa straniera ad emettere debito in dollari. Ma, in realtà, il ruolo all’estero del dollaro impatta sugli americani. Questo comporta benefici, non ultimo prestiti a buon mercato. A fianco ‘dell’enorme privilegio’ di detenere la valuta di riserva, tuttavia, esistono dei costi. Se la FED fallisse nel suo ruolo di prestatore di ultima istanza in una crisi di liquidità del dollaro, il conseguente collasso all’estero comporterebbe dei riverberi all’interno dell’economia americana. E anche nel caso non fossimo in presenza di una crisi, il dominio del dollaro comporterà seri problemi per i policymaker americani. Se gli investitori stranieri continueranno ad accumulare riserve in dollari, questi domineranno il mercato dei Treasury entro il 2030. Per soddisfare la crescente domanda estera di asset denominati in dollari, considerato bene di rifugio, gli Stati Uniti potrebbero emettere sempre più Treasury, aumentando di conseguenza il debito USA o lasciare che gli investitori si rivolgano verso altri asset, rischiando tuttavia di condurre il sistema verso una nuova bolla, così come successe negli anni 2000 con il boom dei mutui subprime.

Idealmente gli USA potrebbero condividere il peso con altre valute. Tuttavia, se la supremazia del dollaro appare instabile, i suoi possibili successori sembrano inadeguati. Il testimone della supremazia finanziaria è già passato di mano in passato, quando gli USA rimpiazzarono la Gran Bretagna tra il 1920 e il 1945. Ma Stati Uniti e Gran Bretagna all’epoca erano alleati, il che consentì un passaggio di potere ordinato grazie anche al fatto che gli USA arrivarono pronti all’appuntamento con un’economia dinamica, come quella britannica, coesione politica e soprattutto un sistema di diritto comune basato sulla rule of law.

Compariamo oggi le pretendenti allo status di valuta di riserva. L’euro è una valuta la cui stessa esistenza non può essere del tutto garantita. Solo nel momento in cui l’unione monetaria avrà trovato un accordo per una completa unione bancaria e l’emissione congiunta di debito questi dubbi potranno essere smentiti. Per quanto riguarda lo yuan cinese, il governo di Pechino ha creato le condizioni per l’equivalente di una autostrada monetaria a otto corsie, attraverso una vasta serie di linee swap con altri istituti centrali, ancora però non trafficata. Fino a quando la Cina non aprirà del tutto i mercati finanziari, lo yuan continuerà a giocare un ruolo limitato a livello globale. E inoltre, fino a quando il paese non abbraccerà lo stato di diritto, nessun investitore guarderà allo yuan come un bene rifugio.

Tutto ciò suggerisce che il sistema monetario e finanziario internazionale non sarà in grado di emanciparsi facilmente e velocemente dal dollaro. Esistono cose che gli americani possono fare per assumersi maggiori responsabilità, ma più probabilmente si andrà incontro a una frammentazione del sistema monetario internazionale, con paesi che sceglieranno di isolarsi dalle decisioni della FED abbracciando la politica dei controlli sui capitali.

In sostanza, il dollaro non ha eguali, ma il sistema ad esso ancorato sta scricchiolando.

La nascita dell’attuale sistema monetario internazionale e la propria evoluzione fino ai giorni nostri saranno il tema di discussione del prossimo incontro del ciclo ‘La Verità vi prego sul denaro. In tour’. InBretton Woods settant’anni dopo: una storia ancora attuale, Fabrizio Bentivoglio racconta un viaggio indietro nel tempo per rivivere i passaggi cruciali della storica conferenza del 1944 dove i grandi della Terra si riunirono per stabilire i principi cardine del sistema economico internazionale. I fatti e i personaggi sono analizzati dall’economista Gianni Toniolo per capire e comprendere come ciò che fu stabilito a Bretton Woods, come si vede da questo articolo dell’economist, è ancora oggi al centro del dibattito mondiale.

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