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Italia e finanza pubblica: quanto ci costa essere i primi della classe

L’Italia lazzarona batte la Germania e molti altri stati europei, e proprio sul loro campo da gioco: quello delle finanze pubbliche. Ebbene sì.

di Luigi Ripamonti - 5 Agosto 2014 - 5'

L’Italia lazzarona batte la Germania e molti altri stati europei, e proprio sul loro campo da gioco: quello delle finanze pubbliche. Ebbene sì. L’Italia si distingue per aver risparmiato più di quanto speso negli ultimi vent’anni. Sembra impossibile? In effetti è strano ma non così tanto perché questo virtuosismo è anche una delle cause della situazione sempre più difficile.

A riaccendere il faro sulla questione del debito pubblico è una ricerca condotta da un team guidato da Roberto Poli, già dirigente di importanti aziende italiane. La ricerca affronta il tema del debito pubblico in chiave comparativa e di lungo periodo. Vengono quindi analizzate le dinamiche dei bilanci pubblici di alcuni stati europei dai primi anni Novanta a oggi, e ne emerge un quadro per nulla banale.

L’Italia si caratterizza infatti per il più elevato avanzo di bilancio, la differenza tra entrate e uscite pubbliche prima del pagamento degli interessi, accumulato nel corso di un ventennio, pari a 585 miliardi di euro. Un avanzo primario (detto avanzo quando positivo, altrimenti disavanzo se negativo come spesso accade) è considerato solitamente indice di una finanza pubblica virtuosa in quanto riduce il deficit e quindi stabilizza o fa diminuire il debito pubblico. Colpisce però lo straordinario divario che distingue l’Italia dagli altri paesi considerati. La Germania ha accumulato dal 1995 un avanzo primario pari a 80 miliardi di euro, mentre Francia e Spagna hanno un disavanzo primario pari rispettivamente a -479 e -270 miliardi di euro.

Sorgono a questo punto spontanee due domande: perché paesi che hanno avuto politiche fiscali nettamente meno virtuose negli ultimi vent’anni hanno oggi finanze pubbliche meno disastrate con un peso del debito pubblico più contenuto e maggior spazio di manovra? Dove sono finiti i soldi di questo straordinario avanzo primario?

Come in molti osservatori fanno notare, il fulcro del problema della sostenibilità del debito pubblico italiano non è tanto nel debito in sé quanto nella crescita anemica. Le determinanti della mancata crescita sono molteplici ma è bene avere presente che un avanzo primario consistente è la conseguenza di cosiddette politiche fiscali restrittive, quindi tasse più elevate e minore spesa pubblica. Sarebbe in teoria indicato che uno Stato attui una politica economica anticiclica, spendendo di più quando l’economia rallenta per garantire sussidi di disoccupazione, incentivare i consumi e sostenere i redditi e che viceversa stringa i cordoni della borsa quando l’economia va bene. I recenti anni di crisi suggeriscono che invece questo non sia stato fatto ma che l’Italia abbia invece adottato politiche volte alla sola stabilizzazione dei conti pubblici, che non è avvenuta, tramite la ricerca sistematica di avanzi primari, che è invece avvenuta, a discapito dell’economia reale da cui sono state drenate risorse ingenti.

Le centinaia di miliardi accumulati in molti anni di avanzi primari dovrebbero almeno aver ridotto lo stock di debito pubblico esistente. Eppure non è stato così. La ricerca ha calcolato che nello stesso arco temporale la spesa italiana per interessi passivi sul debito pubblico sia stata pari a 1.650 miliardi di euro (!!). La spesa per interessi ha assorbito in vent’anni risorse pubbliche pari a quasi tre volte l’enorme avanzo primario accumulato, contribuendo all’esplosione del debito pubblico.

Sembra che oggi ci sia la consapevolezza politica che non sia possibile stabilizzare i conti inseguendo l’avanzo primario in quanto questo ha l’effetto diretto di ostacolare la crescita. Sarà da vedere se il governo saprà negoziare in sede europea una maggiore flessibilità sui bilanci pubblici. Rimane scoperto il nodo dell’enorme impatto degli interessi sul debito pubblico pagati ogni anno dal nostro paese, l’ultimo anno per l’ammontare di 80 miliardi di euro.

Di soluzioni proposte a questo male nazionale ce ne sono diverse. Gli autori della ricerca suggeriscono una via di uscita che preveda la riduzione dello stock di debito per un ammontare di 400 miliardi di euro, con conseguente risparmio sugli interessi accompagnato da misure di revisione della spesa e controllo degli investimenti degli enti locali. Sicuramente emerge un messaggio condiviso, e cioè che la situazione delle finanze pubbliche vada affrontata in maniera decisa ed efficace e forse straordinaria.

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