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Lo Stato contro le imprese: quel pasticcio sulle rendite finanziarie

La proposta del governo di innalzare la tassazione sui redditi da investimento, ma solo sul settore privato, preservando invece le rendite su tutti i titoli di Stato, suggerisce l’idea che chi investe nel sistema produttivo sia un ricco speculatore, mentre chi investe in titoli di Stato faccia il bene collettivo. È proprio così?

di Anna Schwarz - 14 Marzo 2014 - 3'

La proposta del governo di innalzare la tassazione sui redditi da investimento, ma solo sul settore privato, preservando invece le rendite su tutti i titoli di Stato, suggerisce l’idea che chi investe nel sistema produttivo sia un ricco speculatore, mentre chi investe in titoli di Stato faccia il bene collettivo. È proprio così?

Per orientarsi nel tema dell’aumento delle imposte sulle cosiddette rendite finanziarie e in particolare sulla strada intrapresa che porterà ad aumentare ancora il divario in termini di trattamento fiscale tra gli investimenti nel settore pubblico e nel settore privato, è necessario fare una premessa. È bene inquadrare la diversa funzione e finalità economica della dimensione pubblica e di quella privata, perché la prima non è orientata al conseguimento di un profitto, cioè a un accumulo capitalistico di risorse, ma al garantire servizi per la comunità, anche con un intento redistributivo. Per contro, il comparto privato di un sistema economico vive solo in funzione del conseguimento di profitti, che a loro volta dipendono da un accorto impiego e coordinamento di risorse per la produzione di beni e servizi riconosciuti come utili dal mercato.

L’innalzamento dell’aliquota sui redditi-finanziari-non-titoli-di-Stato sposta ancora una volta risorse dal comparto ad alta produttività, originata della necessità del settore privato di conseguire un profitto, al comparto a bassa produttività, in quanto gli obiettivi del servizio pubblico sono slegati da criteri di economicità della gestione. Viene meno così il ruolo principale del sistema finanziario di favorire l’impiego più efficace possibile delle risorse a disposizione. Per la situazione italiana ciò aggrava ancora di più lo scarto di produttività del sistema Paese rispetto agli altri partner europei.

Nello specifico della situazione italiana, bisogna considerare che le imprese domestiche sono caratterizzate da una sotto capitalizzazione cronica. Questa condizione si traduce in una scarsa efficienza del mercato finanziario e nell’eccessivo ricorso al capitale di credito. L’accesso ai mercati del capitale è appannaggio solo delle imprese grandi, una ristretta minoranza. La quasi totalità delle aziende è di dimensioni ridotte, con un capitale limitato e trova nel credito bancario l’unica fonte di finanziamento. Per queste imprese quotarsi in borsa risulta spesso costoso e inefficiente data la limitata diffusione di titoli azionari sui mercati italiani. Solo il 4,4% delle famiglie italiane possiede titoli azionari e le azioni quotate italiane rappresentano solo l’1,6% della ricchezza finanziaria delle famiglie (dati Banca d’Italia al 2012).

Il divario sempre maggiore tra titoli di Stato e investimenti nel settore privato, distorce l’allocazione dei capitali e si traduce in un drenaggio di risorse, scarse, dal comparto privato (produttivo) verso quello pubblico (improduttivo), danneggiando la competitività del Paese e aggravando la fragilità patrimoniale tipica della maggior parte delle imprese italiane. Inoltre, si penalizza l’esigenza di investimento di una sempre più crescente fetta della popolazione che si ritrova con gli scarsi risparmi di una vita a dover integrare la pensione e a voler sostenere le generazioni più giovani, prime vittime della crisi economica.

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