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Perchè in Italia è sempre più difficile fare ricerca?

La scarsa crescita e il rallentamento della produttività del Paese sono un vero e proprio circolo vizioso. Ecco perchè le scelte di politica fiscale del governo sono oggi più fondamentali che mai.

di Luigi Ripamonti - 4 Marzo 2016 - 3'

Gli studi economici condotti sull’Italia dall’OCSE lo scorso anno testimoniano quanto il fisco italiano sia un disincentivo agli investimenti in ricerca e sviluppo.

Il documento si apre con la descrizione dell’ambizioso programma di riforme in atto, volto a stimolare la crescita sfruttando le sinergie esistenti tra le varie politiche pubbliche.

Il primo punto è quello della riforma del mercato del lavoro e del miglioramento della competitività per rilanciare la produttività. Quello di una carente crescita economica è almeno dagli anni ’90 il principale problema nazionale: la scarsa crescita ha impedito investimenti in competenze ed istruzione e questo impedimento ha ulteriormente rallentato il passo produttivo del Paese. Un vero e proprio circolo vizioso dal quale è certamente necessario uscire.

E qui veniamo al tema: per prima cosa occorre rendersi conto che non è più possibile avere un fisco disallineato da qualunque altro paese avanzato. Prendiamo per esempio la retroattività delle norme fiscali, una cosa inconcepibile in qualunque altro paese OCSE. Un esempio: legge di Stabilità del 2014 modificò con effetto retroattivo tre norme fiscali: quella della riduzione dell’IRAP del 10%, quella sul regime fiscale dei fondi pensione e delle casse previdenziali private e – cosa che più rileva con riferimento alla questione che stiamo trattando – quella relativa al credito di imposta sugli investimenti in ricerca, dapprima promessa e subito dopo abrogata. Difficile che le imprese stranire che hanno subito questo cambiamento retroattivo possano ritrovare la fiducia nello Stato italiano.

E questi problemi non sono per nulla finiti. È di fine gennaio la notizia che per l’esercizio 2015 tutte le aziende italiane che hanno svolto un’attività di ricerca e sviluppo superiore ai 30.000 euro potranno usufruire del credito di imposta sull’incremento, rispetto alla media 2012-2014, degli investimenti sostenuti per attività di ricerca e sviluppo. Il problema è che la norma – originariamente semplice – è stata poi complicata con bizantinismi che annullano l’intento di partenza di sostenere la ricerca industriale per lo sviluppo tecnologico del Paese.

Quali bizantinismi? Per esempio, l’esclusione dal beneficio di ricerche svolte – sempre da aziende italiane, si badi bene – per multinazionali non residenti in Italia. E questo in una realtà tecnologica industriale che prevede quasi sempre operazioni infragruppo e in un momento in cui il ritorno degli investimenti stranieri sul suolo nazionale corrisponde verosimilmente alla più reale possibilità di ripresa degli investimenti in ricerca di cui disponiamo. Sono le grandi multinazionali le aziende capaci di muovere capitali sufficienti a riattivare la ricerca e la tecnologia su ampia scala e con beneficio di tutto il tessuto produttivo.

Abbiamo una bassa crescita e con queste dinamiche sarà sempre più complicato rimetterla in moto. Nel mentre, le persone di maggior talento, ricercatori e non, escono dall’Italia per cogliere le opportunità che qui non possono avere: anche per questo il Paese diventa sempre meno competitivo e capace di innovare e rinnovarsi.

Le scelte di politica fiscale del governo sono oggi più fondamentali che mai.

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