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Al mercato del lavoro non serve altra flessibilità – Intervista a Paolo Manasse

Lentamente, sta prendendo forma il cosiddetto Jobs Act, la riforma del lavoro proposta del governo Renzi. Sono ancora in via di definizione le specifiche ma le direttrici della riforma sembrano essere tracciate.

di Lorenzo Saggiorato - 19 Settembre 2014 - 5'

Lentamente, sta prendendo forma il cosiddetto Jobs Act, la riforma del lavoro proposta del governo Renzi. Sono ancora in via di definizione le specifiche ma le direttrici della riforma sembrano essere tracciate. Maggiore facilità di accesso al mondo del lavoro e minori vincoli per le imprese a mantenere l’occupazione. Più flessibilità insomma, per venire incontro alle esigenze del sistema produttivo. Un recente studio mette però in dubbio l’efficacia di questi provvedimenti, anzi porta a ritenere che potrebbero essere controproducenti aggravando una situazione già difficile.

Ne parliamo con l’autore dello studio, il professor Paolo Manasse, docente di economia presso l’Università di Bologna. La ricerca, scritta con l’economista Thomas Manfredi, è stata pubblicata in formato di e-book dal titolo “Flessibilità, mito infranto del mercato del lavoro”.

D: Professor Manasse, dalla sua ricerca sul rapporto tra produttività e mercato del lavoro emergono alcuni importanti guasti del sistema Italia. Ci può riassumere i risultati che avete ottenuto?

R: In Italia, la relazione tra occupazione, crescita dei salari e produttività è esattamente al contrario di quanto succederebbe in un sistema ‘sano’. In un mercato del lavoro che funziona correttamente i salari sono più elevati nei settori più produttivi, dove un’ora di lavoro produce maggiore valore aggiunto. Non accade così in Italia, dove riscontriamo addirittura la dinamica inversa, per cui i salari dal 2000 ad oggi sono cresciuti maggiormente nei settori in cui la produttività è aumentata di meno. Un altro dato preoccupante è che l’occupazione è aumentata maggiormente nei settori meno produttivi. Emerge quindi una palese allocazione sbagliata del fattore lavoro sul tessuto economica.

D: A cosa sono dovuti questi effetti?

R: Si riscontra una forte relazione tra aumento dei prezzi e aumento dei salari. Questi ultimi sono cresciuti maggiormente nei settori che dal 2000 hanno aumentato maggiormente i prezzi rispetto al resto dell’economia. La capacità delle imprese di aumentare i prezzi è solitamente una buona approssimazione del livello di concorrenza. In un settore con forti barriere all’ingresso, altamente regolamentato, con una forte presenza dello stato, piuttosto che caratterizzato da qualsiasi altra forma di protezione, le imprese sono soggette a una concorrenza limitata, che si concretizza in una maggiore libertà di determinare i prezzi.

Un altro fattore che caratterizza il mercato del lavoro italiano è la diffusione della contrattazione collettiva nella determinazione dei salari, mentre il canale della contrattazione a livello d’impresa è particolarmente limitato. In questo modo viene meno qualsiasi relazione tra il salario percepito e valore dell’azienda, facendo venir meno qualsiasi traccia del tanto decantato concetto di merito.

D: Quali implicazioni vede in termini di politiche per il lavoro?

R: È importante attuare misure per aprire alla concorrenza i settori caratterizzati da un più elevato livello di protezione. Servirebbe anche spostare il baricentro della sede di contrattazione salariale dai sindacati e organizzazioni di categoria alle imprese. Questo processo richiederà però un confronto con il mondo dei sindacati che non sarà sicuramente semplice.

D: Non è in questa direzione che si muove la riforma.

R: Le riforme del lavoro negli ultimi anni hanno insistito sull’aumento di flessibilità, con l’obiettivo di adattare l’occupazione alle esigenze variabili delle imprese. Tuttavia se non si capisce il meccanismo di errata allocazione del fattore lavoro e non si interviene per correggere questo meccanismo, il solo aumento della flessibilità potrebbe essere non solo inutile ma anche controproducente, innescando un’accelerazione di questa dinamica, con severe conseguenze sulla crescita economica.

D: Sappiamo che le imprese italiane fronteggiano al momento un enorme problema di accesso al capitale. Potrebbe esistere anche in questo caso un problema di allocazione sbagliata delle riforme, per cui non c’è una relazione tra accesso al capitale e produttività, o addirittura una relazione negativa?

R: Purtroppo è così. Ci sono diverse ricerche che identificano un accesso al capitale non correlato alla produttività d’impresa. Anche una recente pubblicazione dell’OCSE identifica la causa della lenta crescita della produttività in Italia nell’inefficienza nell’allocazione delle risorse. Il livello degli investimenti risulta infatti comparabile a quello di altri paesi dell’area euro, mentre inferiore e in ulteriore rallentamento è l’efficienza del capitale.

Dai risultati della ricerca condotta dal professor Manasse emerge chiaramente che non c’è solo un problema di occupazione, di quantità di lavoro, ma anche di come il fattore lavoro si distribuisce sul tessuto economico, a livello settoriale e d’impresa. Questa prospettiva, ormai consolidata tra gli economisti, fa fatica ad attecchire tra i politici e difficilmente influenza le azioni della politica. Il dibattito sul lavoro si è, come spesso accade, polarizzato, intorno a pochi concetti, come l’Articolo 18 o l’idea stessa di flessibilità, permeati di ideologia e pressapochismo, che fanno però perdere di vista la complessità del problema e rendono impossibile una sua soluzione.

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