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Che sfide pone la nuova geografia del lavoro

Negli anni Settanta Menlo Park e Visalia, due cittadine della California, non erano poi molto dissimili, in termini di qualità della vita e reddito pro capite. Oggi le due realtà non potrebbero essere più diverse.

di Lorenzo Saggiorato - 20 Ottobre 2015 - 5'

Negli anni Settanta Menlo Park e Visalia, due cittadine della California, non erano poi molto dissimili, in termini di qualità della vita e reddito pro capite. Oggi le due realtà non potrebbero essere più diverse.

Queste due città sono emblematiche di un fenomeno che sta avendo un enorme impatto sul tessuto economico e sociale mondiale. Menlo Park è situato nella Silicon Valley, e quindi al centro di uno dei principali hub dell’innovazione degli Stati Uniti e del mondo. Visalia è invece uno dei molti centri che sono rimasti indietro, e sono sempre più lontani.

È questa l’immagine evocativa con cui Enrico Moretti, economista all’Università di Berkeley, California, apre il suo libro “La nuova geografia del lavoro”. Il lavoro di Moretti, che brilla per lucidità dell’analisi, chiarezza espositiva e capacità di coinvolgere il lettore (anche non tecnico), approfondisce il ruolo dell’innovazione nel determinare il successo o l’insuccesso di un’area, così come le scelte di posizionamento di imprese e lavoratori.

Alla base di questa dinamica si trova la spinta di aggregazione del settore dell’innovazione. Un centro che ospita sul proprio territorio imprese innovative continuerà ad attrarre imprese innovative e lavoratori specializzati. Gli hub dell’innovazione diventano così i luoghi dell’incontro fisico tra domanda e offerta di lavoratori qualificati, ad alto capitale umano. L’impresa che necessita di lavoratori specializzati avrà convenienza ad avere una propria sede dove la concentrazione di questa forza lavoro è maggiore e, viceversa, i lavoratori qualificati hanno convenienza a cercare lavoro laddove la domanda per quel tipo di mansioni è più densa. Un terzo fattore estremamente rilevante nel determinare questo processo di aggregazione è rappresentato dalle cosiddette esternalità del capitale umano: i lavoratori e le imprese innovative hanno enormi vantaggi dall’essere fisicamente vicini ad altri soggetti che si trovano sulla frontiera dell’innovazione per facilitare lo scambio e la creazione di idee. Nel mondo globalizzato e dominato da internet, non è vero che il posizionamento di un’impresa è irrilevante o che è solo guidato dal minor costo del lavoro.

Dagli anni Ottanta la Silicon Valley si è imposta come centro dell’innovazione, determinando così un drastico miglioramento delle condizioni di vita dei suoi residenti. Tale dinamica, sostiene Moretti, non ha interessato però soltanto la forza lavoro impiegata nel settore dell’innovazione. Il successo e la ricchezza generata dal settore innovativo si traducono infatti nella creazione di posti di lavoro anche nel settore dei servizi locali e alla persona, sia perché utilizzati dai lavoratori, ben pagati, del settore, sia perché impiegati direttamente dalle imprese. Moretti stima che un posto di lavoro creato nel settore innovativo determini la nascita di cinque nuovi posti di lavoro sul territorio nei dieci anni successivi. La presenza di un polo dell’innovazione costituisce un enorme motore per lo sviluppo sociale ed economico del territorio.

L’evidente rovescio della medaglia dell’azione di queste forze di aggregazione è che non tutti i centri sono la Silicon Valley, Seattle o New York. Se gli hub dell’innovazione continuano ad attirare il capitale umano più preparato, a generare posti di lavoro sia dentro sia fuori dal settore innovativo, e a migliorare il proprio tessuto economico e sociale, chi è fuori da questo circolo virtuoso si trova sempre più indietro. Chi non è in grado di attirare l’innovazione vede la fuga della propria forza lavoro più qualificata, una riduzione degli stipendi e del tenore di vita. È in atto quella che il libro chiama la grande divergenza.

La lettura apre quindi ad affascinanti e impellenti interrogativi. Come è possibile oggi stimolare l’innovazione in aree che non sono state in grado di porsi come poli di attrazione? Qual è il ruolo, se deve essercene uno, che deve avere la mano pubblica nel gestire questo processo? La risposta dell’autore a queste domanda non è univoca. Se ci sono infatti esempi in cui interventi ad hoc sono riusciti ad avviare un processo virtuoso di aggregazione dell’eccellenza e dell’innovazione, molti sono gli esempi del fallimento di tali politiche. Nella maggior parte dei casi l’hub nasce in un luogo piuttosto che in un altro per un combinato di condizioni difficilmente ricreabili (la nascita di un brevetto in un certo luogo, il posizionamento di una grande azienda, la presenza di uno o più studiosi…).

L’analisi di Moretti è incentrata sul mercato del lavoro americano ma racchiude molti elementi di universalità. Una riflessione su questi temi è d’obbligo anche guardando all’Italia, che è oggettivamente esclusa dalla frontiera innovativa in molti settori, produce un numero di innovazioni inferiore a molti altri paesi europei e vive una forte fuga di capitale umano.

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