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Crisi bancaria: perché a pagare sono ancora i piccoli risparmiatori?

Lo scenario bancario europeo non è dei migliori: costi fissi elevati, tassi di interesse ai minimi storici e frammentazione eccessiva. Quali cambiamenti rischiano di subire i piccoli risparmiatori nei loro rapporti con gli istituti bancari?

di Lorenzo Saggiorato - 4 Ottobre 2016 - 5'

Ormai da mesi, il settore creditizio europeo fronteggia un serio problema che ha tra le sue cause principali la perdita di redditività. Questa situazione trae origine da molti fattori, tra cui i principali sono da ricercare nel calo marcato del ROE. Infatti per le banche del Vecchio Continente, il ROE (Returns On Equity), un indice che misura la redditività del capitale, è sceso al 4,1% rispetto al 10% che fa riferimento sia ai livelli pre-crisi sia all’attuale valore del ROE delle banche statunitensi. Ad influire pesantemente sulla riduzione degli utili sono stati fattori come: costi fissi elevati, tassi d’interesse ai minimi storici ( o addirittura negativi) e una concorrenza sempre più pressante. Il fenomeno dell’overbanking, ossia l’eccessiva numerosità delle filiali bancarie nel territorio, influisce negativamente sulla redditività perché ostacola la formazione di economie di scala che favorirebbero la riduzione dei costi operativi attraverso una maggiore concentrazione. A tale proposito, il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi si è espresso puntando il dito contro l’eccessiva frammentazione di istituti bancari nel nostro continente.

Ma come ha influito questo scenario sul sistema economico europeo e sui risparmiatori?

I tassi negativi sui depositi che le banche tengono presso la BCE impongono agli istituti creditizi di pagare per tenere parcheggiata la loro liquidità nei conti di riserva di Francoforte. Una mossa che in primo luogo dovrebbe incoraggiare la ripresa del credito nei confronti dell’economia reale, ma che rischia di ritorcersi contro le banche stesse. Infatti, se da un lato la politica monetaria espansiva della BCE ha portato benefici concreti in termini di rafforzamento patrimoniale delle banche e di stabilità del sistema bancario, ad oggi ha causato un brusco declino dei margini di interesse che rappresentano una delle maggiori fonti redditizie dell’attività di intermediazione delle banche. Inoltre, a mettere i bastoni tra le ruote al modello di business tradizionale delle banche, si fanno strada una serie di servizi (Carte di credito, Crowfunding, P2P Lending etc..) offerti dalle startup del mondo “Fintech”, che suscitano un forte appeal soprattutto nei più giovani consumatori. Secondo KPMG l’universo Fintech minaccia i ricavi da commissioni nette (una delle principali fonti di profitto) e mette in seria discussione il farraginoso apparato operativo e di distribuzione delle banche.

In questo clima inquieto, è opportuno capire anche quali cambiamenti rischiano di subire i piccoli risparmiatori nei loro rapporti con gli istituti bancari. Un recupero della redditività delle banche dovrebbe passare da un aumento dell’efficienza, da un contenimento dei costi e da un ampliamento delle fonti di ricavo. Invece, come facilmente intuibile, in questa prima fase, gli istituti sembrano aver imboccato la via del rincaro dei prezzi dei loro servizi, strategia che provoca danni soprattutto alle tasche dei piccoli risparmiatori. Dal confronto con gli altri Paesi europei, emerge infatti che le banche italiane hanno una maggior percentuale di commissioni nette sui ricavi totali (36,5%) e una maggiore incidenza (1,93%) dei costi operativi fissi sul totale dell’attivo. In sostanza, le banche italiane, oltre ad essere le più costose in termini di commissioni, sono anche le meno efficienti dal punto di vista della gestione interna. Secondo l’ADUSBEF (Associazione difesa consumatori ed utenti bancari finanziari ed assicurativi) il sistema bancario italiano è tra “i meno concorrenziali e tra i più costosi per i correntisti” che in media sborsano 318 euro l’anno contro i 114 euro della media europea.

Oltre al danno dei costi più alti d’Europa, è in arrivo anche la “beffa” della “tassa sui salvataggi bancari” da applicare forzosamente sui conti correnti in alcuni istituti. La tassa è stata architettata sulla base della vicenda delle quattro banche (Cari Chieti, Etruria, Cari Ferrara e Banca Marche) per le quali a novembre il Mef impose l’intervento del Fondo di Risoluzione per 1,8 miliardi. Negli scorsi mesi, infatti, tutte le banche italiane sono state costrette a versare un contributo al Fondo Nazionale di Risoluzione delle crisi bancarie, per permettere il salvataggio degli istituti di credito in crisi. Alcune banche (Banco Popolare, UniCredit e UBI Banca) hanno scelto di scaricare parte del costo del contributo sui loro correntisti, motivando tale scelta con la necessità di rientrare dei costi del “Fondo Nazionale di Risoluzione”. In conclusione, al netto delle scelte di politica monetaria varate dai “piani alti”, a scricchiolare è il caotico modello di business della banca tradizionale caratterizzato da sportelli e filiali sparsi in modo capillare sul territorio con un carico di pesanti costi fissi. Tutto ciò rischia di dover lasciare spazio ad un mondo tecnologico più snello e dall’accesso più semplificato, ma che ancora non è del tutto decollato. Purtroppo, in questa fase di transizione del settore bancario a pagare dazio sembrano essere proprio i piccoli risparmiatori.

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