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IRLANDA PIL AL 26%: NON E’ TUTT’ORO QUEL CHE LUCCICA

Qualcosa di straordinario è accaduto: il Pil dell’Irlanda è cresciuto del 26,3% nel 2015. Perchè non si è verificato in altri Paesi colpiti dalla crisi?

di Alessandro Leozappa - 21 Luglio 2016 - 5'

Sconfiggere la crisi e registrare performance di crescita è il desiderio comune dei Paesi che hanno sofferto in misura maggiore la crisi economica del 2007 e i suoi effetti a seguire. In Europa, nessuno dei cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Spagna e Grecia) si sarebbe minimamente immaginato di sperimentare una crescita a doppia cifra nel 2015.

Eppure, qualcosa di straordinario è accaduto: nel 2015 il Pil dell’Irlanda è cresciuto del 26,3%, dato confermato dall’ufficio nazionale di statistica irlandese, Irish Central Statistics Office.Secondo il Financial Times siamo di fronte ad una consueta novella irlandese che ricorda famosi racconti scritti da James Joyce. Anche il premio Nobel dell’economia Paul Krugman, prima di gridare al miracolo, invita a prendere il dato con le pinze.

Pertanto, prima di sbandierare questo dato ai quattro venti, vogliamo chiederci cosa si nasconde alle spalle di questi numeri e perché tutto ciò è impossibile da replicare altrove, ad esempio in Italia. Il dato così esagerato è spiegato in primo luogo da due fenomeni: un aumento del numero di aerei importati in Irlanda per attività di leasing e l’impennata della massa di capitale delle multinazionali con sede nel paese (Ibm, Google, eBay, Apple) che ha portato alla riclassificazione di interi bilanci aziendali.

Eppure, con buona pace degli economisti e del Financial Times, al netto dei profitti delle multinazionali, la crescita del Pil è comunque da capogiro: 18,7% contro un 5,7% inizialmente stimato. Ad attrarre quest’ enorme afflusso di capitali e di imprese, oltre ai vantaggi della lingua, è stata in primo luogo la corporate tax irlandese (l’aliquota d’imposta sulle società), e cioè quanto l’impresa deve ogni anno allo Stato. In Irlanda la corporate tax è pari al 12,5%, la più bassa tra i paesi OCSE.Dal 1981 al 2015, il tasso medio della pressione fiscale sulle aziende è diminuito dal 47% al 29% nei paesi OCSE, ma l’Italia rappresenta un’eccezione. Da noi l’aliquota d’imposta sulle imprese è ancora ancorata al 31,4%, sebbene sia scesa dal 37,3% che era in vigore prima del 2008. In numerosi studi economici, si è osservato che la maggior parte dell’aliquota– in media il 57,6% – va a pesare sui dipendenti dell’impresa, mentre gli azionisti ne subiscono il 42,4%.

L’Irlanda si colloca al 15° posto nell’indice della Banca Mondiale per la “facilità di fare impresa”, il miglior piazzamento nell’Eurozona dopo la Finlandia e a debita distanza dal 30° posto del Portogallo, 44° della Spagna, 73° dell’Italia e 78° della Grecia.

Flessibilità, lingua e vantaggi fiscali sono state le radici per la ripresa.Se le conseguenze della crisi sono state patite all’incirca allo stesso modo sia dall’Irlanda sia dall’Italia, le ricette per combatterla sono state diverse. L’Irlanda, pur registrando il più alto tasso di emigrazione del Vecchio Continente, ha tagliato drasticamente la spesa pubblica per circa 30 miliardi (il 20% del PIL), ha abbassato gli stipendi e azzerato i sostegni assistenziali favorendo la competitività e, infine, ha tenuto basse le tasse. Dopo anni di “lacrime e sangue”, adesso è ritornata a crescere a ritmi impressionanti.

A mettere le ali all’economia vi è stato il raddoppio delle esportazioni nette (+102%), quello della produzione industriale (+97,8%) e il +4,5% registrato dai consumi. Anche il mercato immobiliare è in netta ripresa e la disoccupazione è scesa dal 15 al 9,4 per cento. Il debito pubblico, che era schizzato dal 23,9 al 123,7 per cento tra il 2007 e il 2012 a causa della crisi finanziaria, quest’anno dovrebbe attestarsi al 75 per cento. Negli ultimi anni, l’Euro debole ha favorito la competitività dell’export irlandese. Oggi, le esportazioni sono pari al 108% del PIL, rispetto al 30% dell’Italia.

Eppure non è tutt’oro quel che luccica eil modello irlandese non sembra una buona strada da percorrere soprattutto per le economie dell’Europa Meridionale. Oggi, il 30% della popolazione è a rischio povertà e il 10% ha lasciato l’isola per emigrare all’estero. In molti si chiedono dove si trovi realmente la crescita poiché l’impatto di questi numeri sull’economia reale e sulla creazione di posti di lavoro è stato molto contenuto. Anche se l’economia ha messo il turbo, ma la maggioranza della popolazione non ne trae giovamento.

Non a caso, sacrifici e boom si sono rivelati un mix deleterio che ha portato allo stallo della situazione politica attuale. Per il futuro sarà importante capire quali conseguenze avrà la Brexit sul Pil irlandese dell’anno in corso, considerando che l’Irlanda era stata segnata come paese più sensibile agli effetti Brexit. Ma l’Irlanda, Dublino in particolare, potrebbe addirittura trarre vantaggio dall’esodo delle numerose banche che hanno sede nella City di Londra.

In conclusione, la “cura” irlandese è stata parziale, ineguale e, per moti aspetti, drogata da trucchi contabili. Tale modello è difficile, se non impossibile, da attuare in Italia e la Brexit rappresenta una seria incognita per le future performance. Vantaggi fiscali sì, ma a che prezzo?

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