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Le crepe del sistema bancario italiano

Il re è nudo. Mentre inizia a rientrare parte della liquidità prestata dalla Bce al settore bancario europeo dal 2011, le banche italiane sono ancora estremamente dipendenti da questa fonte di finanziamento e l’avvento delle procedure di valutazione dei bilanci potrebbe mettere in luce diverse carenze nella gestione delle stesse. E l’economia rimane a secco.

di Anna Schwarz - 5 Novembre 2013 - 5'

Il re è nudo. Mentre inizia a rientrare parte della liquidità prestata dalla Bce al settore bancario europeo dal 2011, le banche italiane sono ancora estremamente dipendenti da questa fonte di finanziamento e l’avvento delle procedure di valutazione dei bilanci potrebbe mettere in luce diverse carenze nella gestione delle stesse. E l’economia rimane a secco.

Dalla fine del 2011, nell’esigenza di evitare il collasso del settore finanziario, sono stati erogati diverse centinaia di miliardi di prestiti da parte della Bce alle banche europee, tramite Longer term refinancing operation (LTRO). Per quanto riguarda l’obiettivo reale del programma, ossia supportare i prestiti e la liquidità nell’area euro, si può dire di essere ancora lontani dalla sufficienza. La manovra ha invece avuto il principale merito di contenere i tassi di interesse sui debiti pubblici dei paesi periferici, perché le banche, prendendo a prestito all’1%, hanno investito massicciamente in titoli di stato con rendimenti molto superiori, sostenendone la domanda. La liquidità “facile” della Bce ha però determinato un’elevata dipendenza delle banche da questa fonte di finanziamento a basso costo, e in particolare ne sono dipendenti maggiormente quegli istituti di credito che avrebbero i costi di finanziamento sul mercato più elevati, quindi teoricamente quelli giudicati meno solidi.

L’Italia è il paese, insieme alla Spagna, le cui banche hanno beneficiato maggiormente della liquidità erogata dalla Bce. Nell’estate 2012, quando si è raggiunto il picco massimo dei prestiti della Bce detenuti dalle banche europee, per un totale di oltre 1200 miliardi di euro, le banche italiane erano debitrici per circa il 23% del totale, e ad oggi, a fronte di una progressiva riduzione dell’esposizione complessiva della Bce, la quota facente capo agli istituti italiani è aumenta fino al 30,6%, a testimonianza di una più lenta restituzione dei prestiti rispetto alla media.

Questa liquidità a bassissimo costo presente nel sistema bancario italiano (per un valore oggi di 240 miliardi di euro) non è confluita nell’economia reale attraverso un aumento di crediti alle imprese bensì nei titoli di stato italiani, aggravando il legame tra stato e banche. Per le banche questa scelta è remunerativa e soprattutto meno rischiosa rispetto all’attività creditizia: gli ultimi dati della Banca d’Italia sui crediti in sofferenza (ossia prestiti a soggetti insolventi) parlano di un totale a giugno di 140 miliardi di euro, con un incremento rispetto all’anno precedente del 22%. Il livello elevato di crediti in sofferenza è estremamente nocivo per l’economia reale perché disincentiva le banche dall’erogare ulteriore credito (soprattutto in presenza di un’alternativa pratica e allettante come finanziarsi dalla Bce e acquistare BTp) e alza il costo dei finanziamenti per le imprese. Questa oggettiva situazione di difficoltà, per le banche e ancora di più per il paese, ci porta nel vivo degli avvenimenti recenti che hanno visto il commissariamento di dodici istituti italiani da parte della Banca d’Italia, a causa di criticità nelle situazioni patrimoniali e nella gestione.

I recenti episodi di commissariamento e un rapporto del Fondo Monetario Internazionale evidenziano le debolezze nella governance frequenti nel sistema bancario italiano. In particolare il documento del FMI indica nella presenza delle fondazioni nella struttura delle banche il principale elemento di debolezza del settore perché conduce ad una gestione localistica, clientelare e non economica degli istituti di credito. Le fondazioni, espressione della politica locale, detengono spesso quote di maggioranza negli istituti bancari, o comunque, pur non essendo azionisti di maggioranza sono spesso in grado di nominare la maggioranza del consiglio di amministrazione, determinando comunque un forte potere decisionale. Si determina quindi una situazione per cui le scelte strategiche delle banche, in termini di concessione di grandi prestiti e operazioni straordinarie, dipendono, in ultima istanza, dal gruppo di interesse di cui la fondazione è espressione.

Due sono gli elementi che minacciano questo precario equilibrio: da un lato la riduzione della liquidità erogata dalla banca centrale (a meno di un nuovo LTRO, non escludibile ma che, di fatto, posporrebbe il problema), e dall’altro la revisione dei bilanci delle banche prevista nel prossimo anno, che potrebbe fare emergere diverse situazioni fragili nel settore. È importante che emergano i casi di mala gestione, perché, allocando le risorse secondo logiche clientelari, a beneficio di interessi particolari, si arrecano forti danni all’economia, e non si può quindi prescindere da questo passaggio. Rimane però da chiarire un aspetto: chi pagherà il conto quando si scopriranno situazioni di insolvenza? Il management? Azionisti e obbligazionisti? O lo Stato, e quindi tutti noi?

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