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Le lacrime di coccodrillo di Padoan e il dito di Cattelan

Basta al banco-centrismo! Lo ha detto e lo ha ribadito il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, intervenendo in occasione della giornata mondiale del risparmio. Secondo il ministro, per sostenere l’economia e gli investimenti, è indispensabile diversificare le fonti di finanziamento delle imprese. Nei fatti però si è andati nella direzione opposta, cavalcando anche un fastidio popolare diffuso.

di Elisabetta Villa - 4 Novembre 2014 - 4'

Basta al banco-centrismo! Lo ha detto e lo ha ribadito il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, intervenendo in occasione della giornata mondiale del risparmio. Secondo il ministro, per sostenere l’economia e gli investimenti, è indispensabile diversificare le fonti di finanziamento delle imprese. Nei fatti però si è andati nella direzione opposta, cavalcando anche un fastidio popolare diffuso.

Il problema è di dimensioni enormi, basti pensare che, secondo i dati diffusi a gennaio da Banca d’Italia, i prestiti bancari rappresentano il 40% dei debiti delle aziende italiane. Negli USA il canale bancario rappresenta solo il 15% dei debiti e nella vicina Francia il dato raggiunge appena il 23%, poco più della metà rispetto alla nostra economia.

A ciò bisogna aggiungere che il dato medio è, come spesso accade, poco rappresentativo. La popolazione delle imprese italiane è infatti composta da un gran numero di aziende piccole, spesso a conduzione familiare, e non quotate. Per queste realtà, il canale bancario rappresenta praticamente l’unica fonte di finanziamento esterno. Il dato medio del 40% include l’effetto di quelle poche ma grandi imprese che invece hanno accesso al mercato dei capitali.

Per svincolare il sistema produttivo dalla dipendenza esclusiva dal canale bancario, la strada dovrebbe essere quella di favorire l’accesso ai mercati finanziari di un numero sempre maggiore di imprese. Non è la prima volta che esponenti del Governo esprimono la necessità di creare canali di finanziamento per le imprese, alternativi ai prestiti bancari. Nella pratica però ben poco è stato fatto per raggiungere lo scopo. Muovendo le leve fiscali, diversi recenti provvedimenti hanno reso più costoso per le imprese il finanziarsi aggirando il canale bancario. Tra questi provvedimenti infausti possiamo ricordare l’innalzamento della tassazione sulle rendite dal 20 al 26% su azioni e obbligazioni private ma non sui titoli di Stato di qualsiasi paese, la tassa sulle transazioni finanziare, la cosiddetta Tobin tax, che si applica solo sulla compravendita di azioni italiane ma non estere e da ultimo l’imposta di bollo, che è proporzionale nella misura del 2 per mille, sul capitale investito ma è invece fissa a 34,2 euro (per importi superiori ai 5.000 euro) sui conti correnti, incoraggiando quindi la detenzione inefficiente di liquidità. Sembra sia stato fatto il possibile per evitare che i risparmiatori investano nel tessuto produttivo italiano e che le aziende ritengano conveniente quotarsi e finanziarsi sui mercati.

Se a tutti questi ostacoli imposti dal legislatore, aggiungiamo la fisiologica reticenza della piccola e media impresa a quotarsi, in quanto si teme una perdita di sovranità sull’azienda e un eccessivo irrigidimento della burocrazia, appare evidente che la scelta di quotarsi in borsa rimanga confinata a pochissime fortunate realtà.

Le parole del ministro appaiono poco coerenti rispetto ai provvedimenti che sono stati varati. È prevalso invece un atteggiamento quasi punitivo nei confronti dell’investimento azionario, che trova però il consenso popolare. Molti identificano i mercati azionari con gli eccessi della mala finanza. L’unico modo tuttavia per ridurre la dipendenza del settore produttivo dalle banche è quello di avere più Borsa. Insomma, il celebre dito medio di Cattelan, che troneggia a Milano in Piazza Affari, è nel posto meno indicato possibile, se vuole essere un segno di protesta contro l’oligopolio delle grandi banche. Facilitare la quotazione in Borsa a un numero sempre maggiore di imprese è un importante passo verso una migliore valutazione del rischio d’impresa, un utilizzo efficiente dei capitali risparmiati e investiti e una liberazione delle piccole e medie imprese dal credito bancario come unica fonte di credito, rilevante soprattutto in un momento in cui i rubinetti sono chiusi, da anni.

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