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Perché l’Italia non cresce?

In Europa vi è un’unione sia doganale che monetaria ma non fiscale. l’Irlanda si conferma il paese europeo più conveniente per le imprese, mentre l'Italia ricopre gli ultimi posti della graduatoria.

di Elisabetta Villa - 7 Settembre 2016 - 5'

Il nodo delle tasse è una vicenda cruciale per un Paese come il nostro, con un Pil intrappolato in un labirinto di numeri decimali. Se da un lato, un elevato livello di tassazione fiscale ha la sua giustificazione nelfinanziare i fabbisogni di spesa pubblica e mantenere costanti gli standard dello “stato sociale”, dall’altro rischia di spostare l’attrattività degli investimenti stranieri verso lidi più favorevoli e mantenere il nostro Paese nella trappola di bassa crescita ed elevata disoccupazione.

Far pagare le tasse nel paese dove i profitti sono stati prodotti è una decisione logica, che si scontra però con le disomogeneità che esistono tra i paesi europei. InEuropa infatti, nonostante l’unione doganale e monetaria esistono notevoli differenze dal punto di vista fiscale, con aliquote e basi imponibili diverse da Paese a Paese. Se a ciò si aggiunge la facilità con cui alcune società che operano nell’universo immateriale del web riescono a creare trucchi contabili, imputando i loro profitti ad uno stato invece che ad un altro, allora le cose si complicano. Non è un caso che i maggiori colossi della tecnologia (Facebook, Intel, Microsoft, Linkedin, PayPal, Twitter, Apple, Dell, Google per citarne alcuni) hanno scelto di far base in Paesi (Lussemburgo, Olanda, Irlanda) caratterizzati da una tassazione favorevole. Negli ultimi giorni, a riaccendere la questione della competitività fiscale tra i Paesi Membri dell’Unione è stata la vicenda che riguarda la tassazione agevolata delle multinazionali che producono profitti in Europa.In particolare, a tenere banco sono stati i vantaggi d’imposta (aliquota fiscale dell’1% dal 2002 al 2014) concessi dall’Irlanda alla Apple, considerati dalla Commissione Europea non conformi con la disciplina in materia di aiuti di Stato. L’azienda di Cupertino dovrà risarcire 13 miliardi al fisco irlandese che, a quanto pare, ne vorrebbe fare decisamente a meno pur di mantenere lo status di terra amica delle aziende dal punto di vista fiscale ed evitare ripercussioni in termini di perdite di posti di lavoro. Le aziende statunitensi insediate nel territorio irlandese sono sono ormai 700 e impiegano circa 140mila addetti, secondo le stime della Camera di Commercio irlandese.

Ma, quando si parla di tasse, qual è il la posizione del nostro Paese rispetto al resto dell’Europa?

Uno studio del Sole24Ore e della Scuola Europea di Alti Studi Tributari di Bologna, ha esaminato i regimi fiscali per le imprese di dieci Paesi UE tenendo conto di accantonamenti ed ammortamenti deducibili sulle spese di ricerca e sviluppo, di plusvalenze, esenzioni sui dividendi e le detrazioni per startup e Pmi. Dal confronto, i risultati hanno confermato quella che è la percezione diffusa. Grazie ad un’aliquota del 12,5% sui redditi delle attività produttive, l’Irlanda si conferma il paese europeo più conveniente alle imprese, mentre Francia e Italia ricoprono gli ultimi posti della graduatoria. A far tremare le imprese in Italia, ci sarebbe un’aliquota del 31,4%. Non sorprende quindi che in Italia, l’incidenza delle imposte societarie sul gettito totale del Paese (11,5%) sia la più alta tra tutti gli Stati europei.

Come se non bastasse, tra tutti i paesi OCSE, l’Italia si trova in fondo alla classifica (peggio soltanto Cile, Israele e Grecia) della “facilità di fare impresa”, stilata ogni anno dalla Banca Mondiale. Lo stesso report ha stimato che occorrono in media 1210 giorni per risolvere una disputa tra aziende in Italia, un numero tre volte maggiore rispetto alla Germania e Gran Bretagna.

Oltre ad un elevato prelievo fiscale, gli ostacoli burocratici e la lentezza dei processi sono quei fattori che aggravano maggiormente l’attrattività per le aziende in Italia.

Il rapporto di PwCPaying taxes 2016 ha puntato il dito sull’elevato cuneo fiscale come una delle cause principale della disoccupazione nei Paesi dell’Europa mediterranea. Di converso, i Paesi con un cuneo fiscale inferiore (Regno Unito, Irlanda, Stati Uniti etc..) hanno avuto migliori performance in termini occupazionali e di crescita economica rispetto agli altri, a testimonianza che le elevate tasse sul lavoro sono un chiaro ostacolo alla ripresa come dimostrano i casi di Italia e Spagna.

Le cose stanno cambiando? Sembra di sì.Nella prossima Legge di Stabilità, si paventa l’introduzione di una flat tax al 24%, e cioè un’unica aliquota fiscale “piatta” e proporzionale uguale per tutte le imprese, ottenuta dalla riduzione dell’attuale Ires al 27,5%. Questa novità porterebbe alcuni vantaggi a beneficio delle imprese cooperative, le multinazionali e le società di capitali. Per quanto riguarda invece le società di persone e le partite Iva, che pagano l’Irpef sui redditi prodotti con aliquote che vanno dal 23% al 43%, si sta pensando di introdurre una nuova Iri pari al 24% sugli utili lasciati in azienda, alla stregua di tutto il resto delle imprese italiane. La diminuzione di un carico fiscale che non ha eguali in Europa, dovrebbe fornire maggior ossigeno a tutte le imprese italiane, da anni soffocate da un fisco vorace, e sostenere così l’attività produttiva e gli investimenti. Tutto ciò incoraggerebbe sia una ripresa della crescita sia una riduzione delle disparità fiscali tra Paesi europei.

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