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BREXIT: Una rottura tragica

Riportiamo tradotto un interessante articolo di The Economist sulle conseguenze del Brexit e sulle ipotetiche soluzioni per minimizzarne gli effetti collaterali.

di Una finestra sul mondo - 24 Giugno 2016 - 7'

Riportiamo tradotto un interessante articolo di The Economist sulle conseguenze del Brexit e sulle ipotetiche soluzioni per minimizzarne gli effetti collaterali.

Come minimizzare il danno provocato dal colpo insensato e auto-inflitto della Gran Bretagna.

Quanto velocemente l’impensabile può tramutarsi in irreversibile. Un anno fa poche erano le persone che si immaginavano che le moltitudini britanniche che amano lamentarsi dell’Unione Europea- stupidi regolamenti, budget rigonfi e burocrati presuntuosi- avrebbero veramente votato di lasciare il club delle nazioni che compra quasi la metà delle esportazioni britanniche. Però, a partire dalle prime luci del 24 giugno, era chiaro che i votanti avessero ignorato gli avvertimenti degli economisti, degli alleati e del loro stesso governo e, dopo quasi quarant’anni nell’UE, stavano per fare un passo audace nello sconosciuto.

La discesa della sterlina ai minimi in 30 anni ha offerto un assaggio di ciò che deve venire. Mentre la fiducia cala, la Gran Bretagna potrebbe entrare in recessione. Un’economia permanentemente meno vibrante significa meno lavori, meno entrate fiscali e, alla fine maggiore austerità. Il risultato farà oscillare la fragile economia mondiale. Gli scozzesi, che più di tutti hanno votato “Remain”, adesso potrebbero essere più desiderosi di liberarsi dal Regno Unito, come hanno quasi fatto nel 2014. Dall’altra parte della Manica, gli Euroscettici come il Fronte Nazionale francese vedono l’uscita della Gran Bretagna come un incoraggiamento a fare lo stesso. L’Unione Europea, un’istituzione che ha aiutato a mantenere la pace per mezzo secolo in Europa, ha sofferto un duro colpo.

Mentre si gestiranno le conseguenze, che hanno visto la nazione divisa per età, classe sociale e area geografica, si avrà bisogno di destrezza politica nel breve termine, mentre sarà necessario ridefinire nel lungo termine le tradizionali linee politiche di battaglia e anche i confini internazionali. Ci sarà un lungo periodo di incertezza. Nessuno sa quando la Gran Bretagna lascerà l’Unione Europea né secondo quali condizioni. Ma in mezzo ad esultanti “Breexiters” e alle recriminazioni di coloro che hanno votato “Remain” due domande si pongono: che cosa significa il voto per la Gran Bretagna e per l’Europa? E cosa succederà dopo?

Brexit: effetti collaterali

Il voto “Leave” equivale ad uno sfogo di rabbia contro l’Establishment. Tutti da Barack Obama ai capi della NATO e dell’FMI hanno insistito affinché i britannici accettassero l’Unione Europea. Le suppliche sono state respinte dai votanti che hanno respinto non solo le loro argomentazioni, ma anche il valore delle opinioni degli esperti. Porzioni significative dell’elettorato inglese che sono state colpite maggiormente dai tagli della spesa pubblica e che hanno beneficiato della prosperità britannica adesso sono alla mercè di un populismo arrabbiato.

Ai britannici sono state offerte molte ragioni per lasciare l’UE, dal deficit democratico a Bruxelles fino alla debolezza economica della Eurozona.

Poiché il numero di nuovi arrivati dall’estero è cresciuto, il dibattito sull’immigrazione ha aumentato le preoccupazioni dei votanti. A questo proposito, i rappresentanti del “Leave” hanno promesso ai loro sostenitori un’economia prospera e il controllo dell’immigrazione. Il problema è che i britannici non possono pensare di raggiungere questi risultati semplicemente votando “Leave”. Se vogliono accedere al mercato unico europeo devono per forza accettare il libero movimento delle persone. Se al contrario si opponessero a quanto detto allora dovranno pagare il caro prezzo di essere esclusi dal suddetto mercato. L’Inghilterra dovrà scegliere tra frenare l’immigrazione e massimizzare il loro benessere.

David Cameron non è la persona giusta per prendere questa decisione. La ragione è che ha sconsideratamente indetto il referendum e portato avanti una campagna fallimentare. Ha dimostrato di aver compiuto un errore catastrofico di valutazione e per questo non potrà negoziare credibilmente la dipartita della Gran Bretagna. Questo compito dovrà ricadere sulle spalle del nuovo primo ministro.

Riteniamo che il futuro nuovo primo ministro dovrà optare per un sistema come quello norvegese che offre completo accesso al più grande mercato unico al mondo, ma che allo stesso tempo segue il principio di libero movimento delle persone. La ragione è che solo così facendo si massimizzerebbe la prosperità. E l’ipotetico costo, quello dell’immigrazione, è in realtà benefico come sostenuto anche dai rappresentanti del “Leave”. Gli immigrati europei in UK contribuiscono alle finanze pubbliche e di conseguenza pagano più che sufficientemente il loro accesso al servizio sanitario e scolastico inglese. Senza immigrazione dall’Unione Europea le scuole, gli ospedali e le industrie come quella agricola e delle costruzioni sarebbero a corto di forza lavorativa.

Prevenire Frexit

Il compito più arduo sarà quello di dire ai britannici che hanno votato “Leave” che le promesse fatte non potranno essere mantenute. Il nuovo primo ministro dovrà affrontare le accuse di essersi svenduto proprio perché dovrà per forza rompere una promessa o per quanto riguarda l’immigrazione o l’economia. Questo è il motivo per cui gli elettori dovrebbero approvare una riforma tramite un’elezione generale piuttosto che tramite un referendum. Mentre l’uscita della Gran Bretagna dall’UE sarà concordata, l’economia ne soffrirà e l’immigrazione decrescerà a causa dell’uscita stessa.

Brexit è anche un grave colpo per l’Europa. L’alto sacerdozio a Bruxelles ha perso il suo tocco con i cittadini ordinari – e non solo in Gran Bretagna. Una recente indagine per Pew Research ha evidenziato che in Francia – uno degli stati fondatori dell’UE e per molto tempo sua forte sostenitrice – solo il 38% della popolazione ha un’opinione positiva dell’UE, percentuale di sei punti al di sotto di quella in UK. In nessuna delle nazioni in cui l’indagine è stata effettuata si sono riscontrati numeri elevati a favore del trasferimento del potere a Bruxelles.

Ogni Stato prova del risentimento a modo suo. L’Italia e la Grecia, le cui economie sono deboli, sono furiose nei confronti dell’austerità imposta dal governo tedesco. In Francia l’Unione Europea è accusata di essere ultra-liberale (anche se gli inglesi l’accusano del contrario). Nell’Europa dell’est si accusa l’UE per aver introdotto valori cosmopoliti come il matrimonio gay.

Dunque, l’UE si trova a dover gestire la rabbia popolare. Il rimedio sta nello spronare la crescita economica. Tramite il singolo mercato, diciamo, tramite il mercato digitale e quello dei capitali si potrebbero così creare posti di lavoro e crescita. L’Eurozona ha bisogno di sostenitori più forti, a partire da una vera e propria unione bancaria. Passando al discorso sul ritorno dei poteri, inclusa la regolazione del mercato del lavoro, fino ai governi nazionali si dimostrerebbe che l’UE non è decisa ad acquisire potere ad ogni costo.

Questo giornale ritiene che ci sia molto da contestare riguardo a questo voto – e che la Gran Bretagna diventi un’economia sempre più chiusa, più isolata e meno dinamica. Sarebbe negativo per chiunque se la Gran Bretagna si tramutasse in una “Piccola Bretagna” e sarebbe anche peggiore se ciò portasse a una “Piccola Europa”. I leader promotori del “Leave” controbattono con la promessa di dare avvio ad un’economia del 21-esimo secolo vibrante e che guarda verso l’esterno. Dubitiamo che Brexit possa portare a questi risultati, ma nulla ci renderebbe più felici che essere nel torto.

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