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Cosa si nasconde dietro i costi di un fondo comune?

Vi siete mai chiesti se il costo che state pagando per un fondo comune rispecchia effettivamente la qualità della sua gestione?

di Anna Schwarz - 17 Gennaio 2017 - 6'

In un mondo della finanza così complesso e globalizzato prendersi cura dei propri risparmi attraverso la gestione professionale degli investimenti è una decisione corretta per evitare di incorrere in brutte sorprese. Ma a quale costo?

La scelta di un fondo è infatti molto più complessa di quanto apparentemente possa sembrare. Preferire un fondo comune guardando soltanto alle sue performance non è certamente una strategia ottimale e potrebbe non rispecchiare la qualità del servizio realmente offerto.

Come noto a tutti, infatti, a meno di non possedere la fatidica sfera di cristallo, le performance passate non sono un indicatore attendibile delle performance future.

Invece, sono i costi addebitati ai sottoscrittori dei fondi a rappresentare un fattore chiave per la valutazione del servizio svolto e un miglior indicatore delle performance future.

Vi siete mai chiesti se il costo che state pagando per un fondo comune rispecchia effettivamente la qualità della sua gestione?

Prima di rispondere a questa domanda è opportuno chiarire cosa si intende per qualità di gestione di un fondo.

Essenzialmente, la gestione del portafoglio di un fondo comune si suddivide in due macro tipologie: la prima si riferisce ad una gestione attiva che ha lo scopo di creare valore aggiunto cercando di “battere il mercato” attraverso una differenziazione del portafoglio rispetto al benchmark di riferimento; la seconda opta invece per una gestione a carattere passivo che replica la composizione di un indice producendo dei rendimenti simili o quasi.

Ne consegue che, aldilà delle singole performance realizzate dalle due tipologie, il servizio offerto da una gestione attiva presenta delle caratteristiche di unicità ben diverse rispetto a quelle di una gestione passiva. Pertanto, se un fondo possiede delle commissioni di gestione più alte, è lecito aspettarsi che i gestori stanno adottando una strategia di gestione attiva e non il contrario.

Di questi ultimi tempi però, è opportuno guardarsi bene alle spalle dalla presenza di falsi fondi attivi o più comunemente detti “closet indexing e cioè di fondi che prevedono commissioni analoghe (se non maggiori) a quelle di una gestione attiva, mettendo però in atto strategie che non si discostano da quelle degli indici di riferimento.

Così, i risparmiatori che investono i loro risparmi in fondi falsi attivi si ritrovano a pagare delle commissioni non commisurate alla tipologia di servizio offerto. Detto in altri termini, si rischia di pagare abbondantemente dei gestori che non fanno altro che replicare un benchmark. Pertanto, per i risparmiatori si tratta di una vera e propria beffa.

La domanda quindi sorge spontanea: come individuare i fondi falsi attivi per starne alla larga?

Diverse metriche sono state messe a punto per identificare le caratteristiche di un falso fondo attivo.

Una di queste è l’ active share che misura la parte di portafoglio del fondo che si discosta dal benchmark. E’ opinione comune ritenere che valori di active share inferiori al 50% possano segnalare l’esistenza di un fondo falso attivo. L’ active share è comunque uno strumento da maneggiare con molta cura. Infatti, se da un lato può essere in grado di rilevare la presenza di un falso fondo attivo, dall’altro alcune ricerche hanno mostrato che valori molto elevati di active share possono essere associati a un peggioramento del profilo di rischio/rendimento del fondo.

Altre misure di variabilità, come il TEV “Tracking Error Volatility, confrontano invece la deviazione dei rendimenti del fondo con quella dell’indice di riferimento. In questo caso, bassi valori del TEV possono suggerire che si sta trattando di un fondo falso attivo.

Nella realtà però, senza un valido supporto, stanare i closet indexing non è compito facile come a prima vista potrebbe sembrare. Infatti, il recupero delle informazioni sulle spese correnti, sulle commissioni di gestione e di performance e su tutte quelle voci di costo non facilmente osservabili dall’investitore richiede un’analisi molto accurata.

Un app dal nomeAngel Costi, mette in relazione le spese correnti di circa 12.000 fondi d’investimento distribuiti in Italia con il loro indice di Tracking Error Volatility(che identifica la qualità di gestione realmente svolta).

Dal confronto si determina così una matrice ripartita in quattro aree:

  • Low-Cost – indica la presenza di fondi a costi contenuti e a basso grado di differenziazione dal benchmark;
  • Star – concentra i fondi che presentano costi bassi associati a una gestione prevalentemente attiva;
  • Premium – ingloba fondi a gestione attiva con elevate commissioni di gestione;
  • Bad – identifica fondi potenzialmente closet indexing, che associano a costi elevati un basso grado di scostamento dall’indice di riferimento.

Da quest’ultima categoria di fondi comuni sarebbe meglio prendere le opportune distanze, in quanto potrebbero maggiormente tradire la fiducia riposta dai consumatori.

AcomeA ha scelto di schierarsi ancora una volta dalla parte dei risparmiatori, offrendo il servizio “Angel Costi”per favorire la trasparenza e la tutela di una corretta competizione di mercato.

Grazie ad Angel Costi è possibile capire se il costo pagato per un fondo rispecchia la qualità della sua gestione.

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