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Deflazione: i rischi dietro al calo dei prezzi

Il calo dei prezzi porta a un aumento del potere d’acquisto per i consumatori. Se questa situazione continuasse ci sarebbe però ben poco da gioire, soprattutto per paesi altamente indebitati come l’Italia. La rivista britannica The Economist fa il punto sulle cause e sui rischi della deflazione.

di Una finestra sul mondo - 24 Febbraio 2015 - 8'

Il calo dei prezzi porta a un aumento del potere d’acquisto per i consumatori. Se questa situazione continuasse ci sarebbe però ben poco da gioire, soprattutto per paesi altamente indebitati come l’Italia. La rivista britannica The Economist fa il punto sulle cause e sui rischi della deflazione.

Per le banche centrali del mondo sviluppato, il due è un numero magico. Se i prezzi crescono del 2% all’anno, i consumatori possono quasi non accorgersi della loro lenta salita. Un pizzico di inflazione è decisamente utile: dà ai datori di lavoro la possibilità di punire i lavoratori non produttivi – uno stipendio invariato equivale infatti a un taglio del 2% – e un incentivo a investire i guadagni. Più importante, mantiene le economie distanti dalla deflazione e dalle scelte depressive– l’accumulazione del contante e il posporre gli acquisti – associate alla riduzione dei prezzi. Ora, malgrado la dichiarata volontà continuare a perseguire l’obiettivo del 2%, un periodo di prezzi in calo non è da escludere.

L’ombra della deflazione è ovunque. Persino in America, in Gran Bretagna e Canada –tutti stati che crescono a un tasso superiore al 2% – l’inflazione è ampiamente sotto il target. I prezzi si stanno raffreddando in Estremo Oriente, con l’inflazione cinese che registra un magro 0,8%. Il tasso del 2,4% in Giappone è destinato a crollare, mentre il paese scivola nuovamente in deflazione; la Thailandia è ci è già. Ma è nell’area euro che la situazione è più grave. Il suo passato di alta inflazione – con i prezzi che sono saliti in media del 11% e del 20% all’anno rispettivamente in Italia e in Grecia negli anni Ottanta – è un lontano ricordo. Oggi, 15 dei 19 membri dell’area sono in deflazione; il tasso di inflazione più elevato, in Austria, è solo del 1%.

Il petrolio spiega una buona parte della storia. Un anno fa un barile di greggio costava 110$, oggi 60$. Questo taglio dei prezzi del 45% sta mostrando i suoi effetti sulle economie. In Gran Bretagna, i dati rilasciati il 17 febbraio mostrano che il calo dei prezzi di energia e trasporti ha contribuito a registrare un tasso di inflazione dello 0,3% rispetto al gennaio precedente, un valore tra i minimi storici. Negli Stati Uniti il prezzo della benzina è sceso del 35% negli scorsi sei mesi; anche il costo del gasolio è molto basso.

Questo non è, in sé, una cattiva notizia. Visto che utilizzare energia durante l’inverno è una necessità, i consumatori stanno meglio quando i prezzi del carburante vengono ridotti. Anche le imprese gioiscono. Oltre ai minori costi per l’energia, il costo dei beni intermedi, dalle bottiglie di plastica ai detergenti, sta scendendo. Alcuni dei risparmi vengono trasferiti ai consumatori: il cibo, che è costoso da trasportare e richiede un’attività di confezionamento, sta diventando più economico. Queste sono le caratteristiche di uno shock positivo dell’offerta: il petrolio più economico significa che le economie possono produrre più beni a un prezzo inferiore. Nel settore dei servizi, che dipende meno da energia, trasporti e derivati del petrolio, i prezzi sono ancora in crescita.

Per la vendita di beni durevoli, la deflazione può sembrare più preoccupante. Il prezzo delle automobili nuove è stabile in Gran Bretagna, in lenta riduzione in Portogallo e in picchiata in Grecia, dove una macchina nuova è più economica di quasi il 20% rispetto al 2005. Per molti settore, comunque, il calo dei prezzi non è una novità ma una costante. Nella zona euro i prezzi di telefoni, computer e macchine fotografiche sono scesi per un decennio (in Spagna gli apparecchi telefonici sono più economici del 90% rispetto a 10 anni fa), quindi è difficile che la deflazione possa impattare sul settore. Anche in Giappone, che ha visto anni di riduzione dei prezzi, c’è poca evidenza del fatto che gli acquisti vengono rimandati.

L’aumento del potere d’acquisto nel breve periodo, derivante dalla riduzione dei prezzi, è il benvenuto. Nel mondo sviluppato gli aumenti salariali sono stati rari malgrado i forti miglioramenti in termini di occupazione. Dall’inizio del 2010 più di 10 milioni di americani hanno trovato un lavoro, e la disoccupazione, che ha visto un picco a oltre 15 milioni, si è ridotta del 40%. Il Giappone ha visto un simile crollo dei disoccupati, da 3,6 a 2,3 milioni. La Gran Bretagna ha fatto addirittura meglio, riducendo i propri disoccupati del 50% ad 800.000 persone. Anche la sofferente euro zona ha aumentato i posti di lavoro in una certa misura. La domanda è perché l’aumento dell’occupazione non ha condotto a un aumento dell’inflazione trainato da aumenti salariali.

I tassi di disoccupazione in America, Gran Bretagna e Giappone – tutti pari o al di sotto del livello pre-crisi – nel passato avrebbero innescato un rialzo degli stipendi. Tutti i tre paesi hanno invece visto un aumento in forme di occupazione precaria: è cresciuto il lavoro part-time come il numero di sotto-occupati, che avrebbero lavorato di più se ne avessero avuto la possibilità. Se i contratti più deboli hanno contribuito a creare forza lavoro flessibile, il lavoro occasionale – dagli autisti di Uber ai lavoratori a giornata nel settore edilizio – ha visto una crescita esponenziale. L’occupazione è aumentata ma non il potere contrattuale dei lavoratori.

Gli effetti collaterali di questo nuovo mercato del lavoro flessibile iniziano a richiedere interventi correttivi. Barack Obama ha sollecitato il Congresso perché il salario minimo venga alzato da 7,25$ a 10,10$. In Gran Bretagna entrambi i principali partiti si ripropongono di limitare l’uso dei contratti “a zero ore”. Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha recentemente annunciato che i lavoratori a tempo determinato dovrebbero ricevere lo stesso trattamento che spetta ai colleghi a tempo indeterminato. Come questi provvedimenti innalzano i salari e i costi per le imprese, l’inflazione dovrebbe seguire.

Anche se la situazione non è destinata a durare, questo tipo di deflazione può intorpidire l’economia. Con l’inflazione al 2% un manager che decide cosa fare della liquidità dell’azienda ha una chiara scelta: investire in qualcosa che ha un rendimento maggiore o restituirla agli azionisti sotto forma di dividendi. Entrambi i risultati – aumentare gli investimenti o il reddito degli azionisti – sono positivi. Ma quando i prezzi sono stabili il manager avverso al rischio può comprensibilmente decidere di accumulare la liquidità. Con un’inflazione più elevata, la liquidità accumulata dalle aziende – pari nel 2014 a 2 miliardi di dollari in America e a 229 miliardi di yen (2,1 miliardi di dollari) in Giappone – avrebbe raggiunto più velocemente l’economia.

La zona euro rappresenta una storia a parte. Fatta eccezione per la Germania, i suoi membri hanno fatto poco per rendere i mercati del lavoro efficienti; molti hanno una massa di potenziale inutilizzato. Alla fine del 2009 il tasso di inflazione era di poco inferiore al 10%, vicino a quello americano. Da quel momento la disoccupazione è aumentata ed è adesso al 11%. In Grecia è vicina al 25%. Occorreranno anni per superare questa situazione: se la Spagna, assunta a modello per il tasso di crescita del 2%, procedesse sul cammino attuale, impiegherebbe otto anni a riportare il tasso di disoccupazione a livelli pre-crisi. Chi aspirasse a un salario più elevato ha scarse possibilità di successo. Ciò rende il rischio di una deflazione duratura più concreto che altrove.

Se la caduta dei prezzi perdura, diventa più difficile ripagare i debiti, contratti in termini nominali. Uno studio recente di McKinsey, una società di consulenza, ha analizzato l’andamento del debito totale, governativo, privato e delle famiglie, tra il 2007 e il 2014. In cima alla classifica si trovano le economie dell’euro zona, con il debito cresciuto di oltre 55 punti percentuali sul PIL in cinque stati “periferici” e in tre stati “centrali”. Se i redditi calano bruscamente tali debiti diventano difficilmente sostenibili.

Le banche centrali hanno deciso finalmente di affrontare la situazione. La Banca Centrale Europea (BCE) è stata l’ultima a unirsi alla politica del Quantitative easing (QE) ma a marzo inizierà a creare denaro per comprare debiti governativi. La banca centrale giapponese è impegnata anch’essa in un’azione di QE nel tentativo di riportare l’inflazione al 2%. Una politica monetaria nuova e radicale – quella dei tassi negativi – sta prendendo piede, con le banche centrali del Nord Europa che hanno seguito la BCE su questa strada. Se questi tentativi dovessero fallire allora gli entusiasmi per il cibo e il carburante a basso prezzo avrebbero vita corta, dal momento che le economie altamente indebitate si troverebbero a usare tutti i risparmi derivanti dal calo dei prezzi per tenere a bada i creditori.

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