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I 5 miti da sfatare sull’uscita dall’euro: a colloquio con Andrea Terzi

Attraverso l'aiuto di Andrea Terzi, abbiamo cercato di sfatare cinque luoghi comuni sull’uscita dell’Italia dall’euro.

di Redazione - 21 Marzo 2017 - 6'

Dopo i risultati elettorali in Olanda, l’Europa ha tirato un primo sospiro di sollievo riguardo la tenuta dell’eurosistema.

In vista delle presidenziali in Francia di maggio, rimane sempre viva l’incognita populista ed euro-scettica di Marine Le Pen che nel suo programma elettorale ha espresso la volontà di abbandonare l’euro e reintrodurre il franco.

L’impressione, condivisa da più parti, è che l’uscita di un paese dall’eurozona possa scatenare un inevitabile effetto domino compromettendo l’intero disegno dell’Unione Monetaria.

E se a uscire fosse l’Italia? Cosa accadrebbe in caso di “Italexit”?

Abbiamo cercato di fare chairezza e sfatare cinque luoghi comuni sull’uscita dell’Italia dall’euro facendoci aiutare da Andrea Terzi, professore alla Franklin University Switzerland e docente di Economia Monetaria nell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

1) Uscire dall’euro è un percorso facilmente programmabile e attuabile. Falso.

È difficile immaginare un’uscita dell’Italia dall’euro attraverso un referendum abrogativo, che la nostra Costituzione non ammette con riferimento alle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Occorrerebbe dunque che a vincere le elezioni fosse un partito che ha in programma il “ritorno alla lira”.

E poiché uscire unilateralmente dall’euro rimanendo all’interno dell’Unione Europea è un’ipotesi non prevista dai trattati, è prevedibile che il resto dell’Europa non sarebbe disposto a lavorare con l’Italia per una separazione consensuale. D’altra parte, l’unione monetaria non è un semplice accordo di cambio. Essa è già, in una notevole misura, una forma di unione politica.

Si tratterebbe dunque di una rottura traumatica col resto dell’Europa (siamo Europa anche noi!) che assomiglierebbe molto ad una secessione, con imprevedibili conseguenze politiche e prevedibili guasti di natura sociale e culturale prima ancora che economici e finanziari.

2) Depositi e prestiti bancari verranno convertiti in lire con vantaggi per tutti. Attenzione non tutti.

Convertire crediti e debiti nella “nuova lira” è la ricetta più comune. Ma non c’è niente di peggio di una conversione forzosa della ricchezza finanziaria delle famiglie e delle imprese in una diversa denominazione di valore incerto. È probabile che ciò provocherebbe la corsa a vendere le nuove lire per acquistare euro con notevoli perdite di valore della nuova moneta. Chi ne uscisse penalizzato coverebbe inoltre il risentimento nei confronti di coloro che fossero riusciti a spostare il proprio denaro all’estero prima dell’ora X.

Infine, il grado di apertura dell’Italia col resto del mondo è elevato, e i debiti in euro degli italiani verso controparti estere diventerebbero estremamente onerosi se la nuova lira si deprezzasse pesantemente.

3) Il nostro debito pubblico diminuirebbe. Infondato.

Innanzitutto occorre tenere conto del fatto che un calo del valore del debito pubblico corrisponde ad un calo della ricchezza finanziaria di chi lo detiene. E dunque l’obiettivo stesso di tagliare il debito col ritorno alla lira è di per sé mal posto.

In ogni caso, l’Italia potrebbe ridenominare in lire solo una parte del proprio debito pubblico senza ricorrere al default. Dal 2013, i titoli pubblici vengono emessi con clausole di azione collettiva (CAC) che regolano i casi di ristrutturazione del debito. Detto in altri termini, se l’Italia convertisse il debito pubblico in lire si aprirebbe un arbitrato internazionale sui titoli emessi dal 2013 in poi (circa 900 miliardi di euro).

4) La svalutazione competitiva darebbe slancio alla crescita. Illusorio.

L’idea di creare occupazione rendendo costosi gli acquisti dall’estero e così incentivando consumatori e imprese a sostituirli con prodotti italiani, è una soluzione di gran lunga inferiore ad una politica fiscale e industriale lungimirante che crea opportunità di sviluppo e domanda interna. Sarebbe una brutta copia della strategia del governo tedesco che sembra non comprendere che la crescita trainata dalle esportazioni funziona soltanto a condizione che gli altri paesi siano disposti a far crescere il proprio debito, privato e pubblico. La svalutazione competitiva è una strategia miope che fa dipendere lo stato di salute dell’economia da quello dei paesi verso i quali esportiamo i nostri prodotti, espone al cambiamento dei rapporti commerciali con gli altri paesi che a loro volta potrebbero imporre tariffe e dazi sull’import dei nostri prodotti, e normalmente comporta una marcata redistribuzione del reddito dal lavoro dipendente ai profitti dei settori esportatori.

C’è poi da domandarsi perché l’Italia debba ricorrere ad una svalutazione competitiva visto che le esportazioni di prodotti italiani sono cresciute di oltre il 40% dal 2009 al 2016 (da 292 a 417 miliardi tra il 2009 e il 2016 (Dati Eurostat).

5) L’euro è la causa di tutti problemi della nostra economia. Ingiustificato.

Oggi, si punta facilmente il dito contro l’euro come causa di tutti i mali che affliggono la nostra economia. In realtà, non è l’euro il vero problema, ma due fattori strutturali. Il primo è la cattiva impostazione del governo europeo della moneta che finora non è stato in grado di creare il giusto mix di politiche monetarie e fiscali per una crescita condivisa. Si è principalmente insistito su regole e vincoli, nell’illusione che minori costi ed efficienza siano condizioni sufficienti per la crescita e ignorando colpevolmente il fatto che la domanda interna è condizionata proprio dal governo della moneta. Ciò ha significato anni di stagnazione senza precedenti.

Il secondo non si risolverebbe con l’uscita dall’euro e riguarda i fardelli che più pesano sul sistema Italia: la cattiva burocrazia che deprime iniziative e investimenti, le inefficienze del sistema giudiziario, la dirompente corruzione e l’inefficiente utilizzo e sviluppo delle risorse umane.

Sono questi i due piani per cui vale la pena impegnarsi: riforme concrete e un corretto sostegno della politica fiscale. E l’euro (come moneta) non ne ha colpa.

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