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La mancanza di capitale di rischio in Italia e 2 effetti collaterali

Gli italiani non investono in azioni. La grande ricchezza delle famiglie è infatti composta in larga misura da immobili. Della ricchezza finanziaria, il 30% è detenuto come liquidità sui conti correnti e sui depositi bancari e postali. Trascurando i danni che la scelta comporta per i portafogli dei risparmiatori, questa situazione porta in aggregato ad un livello di capitale di rischio molto scarso con due forti implicazioni: un freno all’innovazione e un aumento della disuguaglianza.

di Luigi Ripamonti - 1 Settembre 2015 - 5'

Gli italiani non investono in azioni. La grande ricchezza delle famiglie è infatti composta in larga misura da immobili. Della ricchezza finanziaria, il 30% è detenuto come liquidità sui conti correnti e sui depositi bancari e postali. Trascurando i danni che la scelta comporta per i portafogli dei risparmiatori, questa situazione porta in aggregato ad un livello di capitale di rischio molto scarso con due forti implicazioni: un freno all’innovazione e un aumento della disuguaglianza.

Del bancocentrismo italiano abbiamo avuto l’occasione di parlare in diversi articoli. Riassumendo, il canale bancario è per il tessuto economico italiano la quasi unica fonte di finanziamento. Nel 2013 la Banca d’Italia riportava che il 65% dei debiti totali delle imprese era verso il settore bancario. La percentuale aumenta poi drasticamente se ci concentriamo sulle piccole e medie imprese, escludendo quindi le poche grandi imprese quotate che hanno accesso diretto al mercato dei capitali. Insomma, l’offerta di capitale di rischio è estremamente contenuta ed è diretta verso una minima parte del sistema produttivo. Per il finanziamento di un progetto imprenditoriale l’unico referente per ottenere un finanziamento è spesso il canale bancario.

Arrendersi a questa condizione, ritenendola una tipicità della società italiana, è estremamente dannoso in quanto le conseguenze sono profonde. Secondo Enrico Moretti, economista dell’università di Berkeley in California e autore del libro “La nuova geografia del lavoro”, la grande scarsità di capitale di rischio nel sistema Italia porta a un minor livello di innovazioni e aumenta la disuguaglianza.

La difficoltà di finanziare i progetti frena l’imprenditoria e l’innovazione. Malgrado il buon livello dei politecnici in Italia la registrazione di brevetti è estremamente contenuta. Nel 2013 in Italia sono stati registrati 60 brevetti per milione di abitanti, dato che ci colloca al diciottesimo posto in Europa, ben al di sotto della media, pari a 129 brevetti per milione. Alla presenza di realtà di prestigio nella formazione scientifica, quali i politecnici di Milano o Torino, non corrisponde poi un tessuto economico in grado di valorizzare le competenze acquisite, con la triste ed evidente conseguenza di un saldo negativo dei flussi migratori di giovani con formazione universitaria o superiore. L’impossibilità di finanziare progetti innovativi porta inevitabilmente i giovani di talento e con formazione scientifica verso paesi e città dove c’è un’alta domanda delle competenze di cui sono portatori. Se la scarsità di capitale di rischio frena qualsiasi progetto imprenditoriale, Moretti dedica particolare attenzione proprio al settore dell’innovazione, in quanto centro gravitazionale della forza lavoro maggiormente qualificata e volano per la crescita nelle aree limitrofe anche per i settori tradizionali.

Un’altra grave conseguenza, forse meno evidente, è l’aumento delle disuguaglianze. Se l’accesso al credito è scarso, solo i progetti innovativi di giovani di famiglie già benestanti potranno essere finanziati, o direttamente dalla famiglia oppure tramite le garanzie offerte da questa a fronte di un prestito.

Ne deriva quindi che il basso livello di capitale di rischio nell’economia italiana porta ad una società più inefficiente e ingiusta.

Le implicazioni di politica economica sono evidenti. Incentivare l’investimento in capitale di rischio, direttamente o tramite fondi, è un tassello indispensabile per stimolare la produzione di innovazioni, fattore cruciale per stimolare la crescita sostenibile del paese, e contenere l’aumento delle disuguaglianze. A differenza di quanto fatto in questi ultimi anni, la leva fiscale può essere un efficace strumento per convogliare una parte maggiore della ricchezza finanziaria delle famiglie verso i mercati azionari, aumentando quindi l’offerta di capitale di rischio. L’attuale cornice fiscale pone invece diverse barriere all’investimento in azioni: l’aliquota sui redditi da capitale favorisce l’investimento in titoli di Stato e l’imposta sulle transazioni finanziarie (Tobin Tax) penalizza le azioni di emittenti italiani rispetto a quelli esteri. Infine, anche la normativa sulla tassazione dei dividendi penalizza l’investimento in capitale di rischio in quanto impone una duplice tassazione, una volta in forma di profitto aziendale e una seconda sotto forma di dividendo. L’eliminazione di questi balzelli, frutto di un’evoluzione inorganica della normativa o forse di una visione miope, è sicuramente un passo importante. Quello che sarebbe però necessario è un cambio di prospettiva del legislatore sul ruolo della tassazione sui risparmi: da fonte di facili entrate fiscali a strumento in grado di allocare in maniera più efficace la ricchezza nell’economia reale.

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