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Perché le banche vendono fondi lussemburghesi?

Dei 560 miliardi di euro che costituiscono il patrimonio investito in fondi comuni a fine 2013, ben 235 sono investiti in fondi round-trip, o esterovestiti, ossia fondi di proprietà di società italiane ma domiciliati all’estero, principalmente in Lussemburgo e in Irlanda. Ecco perché sono così convenienti, per chi li vende.

di Luigi Ripamonti - 29 Aprile 2014 - 7'

Dei 560 miliardi di euro che costituiscono il patrimonio investito in fondi comuni a fine 2013, ben 235 sono investiti in fondi round-trip, o esterovestiti, ossia fondi di proprietà di società italiane ma domiciliati all’estero, principalmente in Lussemburgo e in Irlanda. Ecco perché sono così convenienti, per chi li vende.

Il patrimonio investito in fondi comuni ha visto in questi anni forti variazioni, crescendo durante gli anni di espansione del mercato e riducendosi quando le borse sono scese. Tuttavia nell’ultimo decennio abbiamo costantemente assistito a un fenomeno: l’erosione della quota di patrimonio gestito da fondi di diritto italiano in favore di quelli esteri e round-trip o esterovestiti, ossia fondi esteri, tipicamente lussemburghesi e irlandesi, ma di proprietà di società italiane. Come si osserva dal grafico, il patrimonio investito in fondi esterovestiti era pari solo al 12% del totale, mentre rappresentava il 42% del mercato alla fine del 2013.

Il grafico è tratto dal factbook 2013 pubblicato da Assogestioni, che, data l’entità del fenomeno, ha dedicato ai fondi round-trip un approfondimento specifico. Il testo offre alcuni spunti di riflessione, ma è soprattutto rilevante che un organo di settore come Assogestioni si focalizzi sul tema. Se infatti la diffusione dei fondi esteri tra gli investitori italiani, che era nulla agli inizi degli anni 2000 e arrivata quasi a uguagliare la presenza di fondi italiani, è da ritenersi fisiologica data l’apertura del mercato, è difficile spiegare perché le società italiane ricorrano sempre più massicciamente alla creazione di controllate estere per produrre fondi venduti principalmente in Italia. Proviamo a vedere dunque perché lo fanno e chi beneficia, e chi no, di questa impostazione.

All’origine della diffusione dei fondi esterovestiti, Assogestioni individua un ambiente regolamentare più accogliente e dei vantaggi fiscali sia per i risparmiatori sia per le società di gestione. Tuttavia, nel luglio 2011 è venuta meno la disparità di trattamento fiscale prima esistente tra i fondi di diritto italiano e quelli esteri, con il passaggio alla tassazione sul realizzato anche in Italia, facendo venire meno il vantaggio fiscale per l’investitore italiano.

A questa modifica non è però corrisposta una riduzione degli acquisti di fondi round-trip, come sarebbe stato lecito aspettarsi, anzi. Dal 2011 le banche sono tornate a proporre ai propri clienti fondi comuni perché la strategia commerciale si è spostata maggiormente su prodotti che offrivano guadagni commissionali, tuttavia questa rinnovata popolarità dei fondi comuni ha interessato tutti i in misura preponderante quelli esteri e quelli esterovestiti. Negli ultimi quattro anni si è addirittura ridotto il patrimonio investito in fondi italiani, mentre quello investito in fondi round-trip e esteri è cresciuto rispettivamente del 50 e 140%. Venuto meno quello che era l’unico effettivo vantaggio per l’investitore, tra le ragioni a supporto rimangono solo quelle che favoriscono la società di gestione, ossia il fisco più leggero e soprattutto una regolamentazione più blanda. Vediamo gli effetti di quest’ultima.

Un fondo estero, e quindi anche uno esterovestito, deve sottostare alla vigilanza delle autorità del paese in cui è domiciliato. Tali autorità recepiscono la normativa europea ma, da paese a paese, vi sono tuttavia piccole ma importanti differenze. Si creano così spazi di manovra in cui le banche e le SGR, anche italiane, riescono garantirsi maggiori profitti, anche a discapito dei propri clienti. Il buco nella regolamentazione più evidente riguarda la disciplina delle commissioni di performance, o di incentivo. Queste sono trattenute dalla società di gestione a fronte di un buon risultato del fondo e ricoprono un ruolo importante perché, teoricamente, allineano l’interesse della società di gestione a quello dell’investitore, facendo sì che la prima guadagni quando guadagna anche il secondo. Tuttavia, è cruciale il metodo utilizzato per calcolare le stesse. Banca d’Italia impone ai fondi sotto la sua vigilanza, ossia quelli di diritto italiano, di calcolare e prelevare le commissioni di incentivo su orizzonti non inferiori ai 12 mesi. Questa norma non vale però per i fondi lussemburghesi e irlandesi, perché Banca d’Italia vigila solo sulla commercializzazione di questi prodotti in Italia ma non sul regolamento. Il risultato è che spesso i fondi esterovestiti prelevano commissioni di incentivo calcolate su orizzonti trimestrali, o addirittura mensili, riuscendo così a guadagnare anche in condizioni di sostanziale pareggio del fondo (come approfondito nel video e in questo articolo).

Sostanzialmente siamo in una situazione che conviene a tutti (o meglio, quasi tutti): gli Stati che interpretano la regolamentazione europea in maniera più leggera attraggono società di gestione da tutta Europa, mentre queste beneficiano di un trattamento fiscale di favore e della possibilità di applicare costi molto più agevolmente che in Italia, beneficiando però dello stesso accesso al mercato nazionale di un fondo domestico. Gli unici che sembrano esclusi da questo banchetto sono gli investitori, che sono anzi fortemente penalizzati da questo meccanismo.

La domanda sorge ora spontanea: perché Banca d’Italia impone giustamente ai fondi italiani una regolamentazione in materia di commissioni di performance che, per quanto migliorabile, è abbastanza tutelante il risparmiatore, ma permette invece l’accesso al mercato a prodotti che non devono rispettarla, e anzi, alle volte prevedono addirittura commissioni di performance che sembrano costruite esattamente con l’obiettivo di essere prelevate sempre e comunque, indipendentemente dal risultato del fondo, proprio quello che Banca d’Italia vorrebbe evitare?

La situazione è paradossale, sarebbe come se l’autorità a tutela della salute dei consumatori vietasse ai produttori italiani, ad esempio di creme, di utilizzare un certo ingrediente perché ritiene che sia nocivo. Questo divieto non si estende però ai produttori esteri che possono liberamente vendere la crema al supermercato. Sarebbe strano ma c’è di più: un produttore di crema italiano, la Cream SpA, costituisce una società in Lussemburgo, la Cream S.A., che può vendere tranquillamente al supermercato la crema che utilizza l’ingrediente vietato alla sua capogruppo in Italia. Purtroppo non è finita qui, perché la Cream SpA è di proprietà del supermercato che decide di proporre ai propri clienti il prodotto su cui ha il guadagno maggiore, ossia la crema prodotta dalla Cream S.A., con l’ingrediente vietato dall’autorità italiana, perché questo, per quanto nocivo per il consumatore è economicamente conveniente. Sembra assurdo ma nel settore dei fondi comuni un meccanismo molto simile è quasi la norma.

Scegliere come investire i propri risparmi sembra spesso difficile e il risparmiatore si sente in balia di offerte che si rivelano poi delle fregature. In questo caso però è relativamente semplice tutelarsi. Quando la banca vi propone un fondo di una propria SGR ma di diritto lussemburghese chiedete come mai è lussemburghese e non italiano. Di fronte ai magnifici vantaggi che vi racconteranno offra un fondo lussemburghese rispetto a un suo equivalente italiano, chiedete come sono calcolate le commissioni di performance. Infine, se non siete conviti, scegliete un prodotto di diritto italiano, perché, in questo caso, la maggiore regolamentazione è un costo sulla società di gestione ma è una tutela per i vostri risparmi.

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