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Arrivederci Fiat, ciao

La Fiat abbandona l’Italia. Dall’anno prossimo il primo gruppo automobilistico italiano avrà sede legale in Olanda e sede fiscale in Gran Bretagna.

di Lorenzo Saggiorato - 31 Gennaio 2014 - 4'

La Fiat abbandona l’Italia. Dall’anno prossimo il primo gruppo automobilistico italiano avrà sede legale in Olanda e sede fiscale in Gran Bretagna.

Leggendo i giornali e i commenti alla notizia emerge che la decisione suscita in tanti un forte sentimento di rabbia. In molti si sentono traditi e abbondano le proposte di boicottaggio: “Mai più auto Fiat”. Questo sentimento è comprensibile perché per decenni la Fiat è stata fortemente aiutata dallo Stato (dai contribuenti), beneficiando di sussidi, incentivi pubblici, e investimenti agevolati, e oggi, per far fronte alla difficile situazione economica, volta le spalle a quel paese che le ha sempre garantito un trattamento di favore.

Per quanto sia chiara l’origine di questa reazione stizzita, non si può non constatare che la politica del sussidio pubblico era inaccettabile e insostenibile. Con i soldi dei contribuenti si è alimentato un sistema per cui la Fiat ha avuto negli anni molti meno incentivi a innovare e a rinnovarsi per competere sul mercato domestico e soprattutto internazionale, potendo contare comunque sul sostegno statale. In cambio alla Fiat, così come a molte altre grandi imprese ritenute strategiche, si chiedeva di creare e mantenere occupazione, sostenendo – supplendo – lo Stato nella sua funzione di fornire ammortizzatori sociali, in un’enorme confusione dei ruoli. Si alimenta in questo modo un circolo vizioso perché a Fiat si chiede di non lasciare il paese alla luce degli aiuti ricevuti, ma come questi vengono meno Fiat non trova più in Italia le condizioni migliori per operare.

L’attuale situazione di stress delle finanze pubbliche, con il debito in continuo aumento, e i grandi sforzi e sacrifici compiuti nel tentativo di contenere la spesa pubblica, deve fornire l’occasione per abbandonare le politiche dei sussidi statali che finiscono per alimentare l’inefficienza degli operatori. Inoltre, pensare che Fiat debba mantenere la residenza in Italia per solo senso di riconoscenza è un’idea pericolosa, perché in aperto contrasto con il principio di libertà degli agenti economici, oltre che non coerente con il contesto globale in cui Fiat opera.

La decisione di Fiat non dovrebbe avere al momento conseguenze sull’occupazione e la produzione in Italia, tuttavia la vicenda preoccupa perché mette in luce, se ancora ce ne fosse bisogno, l’incapacità del nostro paese non solo di attrarre investimenti e talenti dall’estero, ma anche di trattenere quelle realtà radicate da sempre nel tessuto nazionale. Il caso Fiat deve portare subito a una riflessione sulle condizioni del fare business nel nostro paese perché non è più replicabile il modello per cui lo Stato paga un’impresa per operare in Italia, anzi che essere scelto, e non può neanche sussistere il sistema per cui si dà alle imprese la responsabilità, che non competerebbe loro, di garantire comunque un reddito ai cittadini. Due sono le lezioni da trarre. In un contesto in cui ogni agente economico prende liberamente le decisioni ritenute migliori per il proprio business, nel rispetto delle leggi, l’Italia deve attrezzarsi per competere a livello internazionale per essere scelta dalle imprese locali come meta dove investire , creando condizioni in cui sia interessante fare impresa, e forse a quel punto avrà senso anche parlare di attrazione di investimenti esteri. Allo stesso tempo la rabbia suscitata dalla dipartita di Fiat mette in luce quella fragilità del sistema in caso di una riduzione dell’occupazione. Soprattutto in un periodo di crisi, con la disoccupazione in aumento è fondamentale che lo Stato si attrezzi di una seria politica che sostenga il lavoratore in caso di perdita del posto per sgravare le imprese dal vincolo di mantenere il lavoro creato e di poter adattarsi alla variazione del contesto economico.

La legittima scelta di Fiat ha un alto valore simbolico e segnala l’irrimandabile necessità di riformare il sistema produttivo italiano.

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